Maremma Libertaria n 23

Mala tempora

Ho provato a riassumere questi mesi. Ma non trovo più nemmeno le parole. Ovunque deserti colmi di grida, starnazzi, insulti privi di ogni logica che non sia quella della sopraffazione, dell’umiliazione, della guerra tra poveri, dell’avanzare di un fascismo ignaro persino di sè. E quello che era un movimento antagonista chiuso in se stesso, frammentato, alla deriva, spesso ostaggio di sirene elettorali e caudilli alla De Magistris. Tempi grami, pessimi. Mi affido allora alle righe di una mia amica che scrive: “Forse a questo punto non mi stupisce nulla in generale. Non c’è solidarietà tra i popoli, non c’è solidarietà tra insegnanti, tra madri, tra operai, tra ferrovieri, non c’è solidarietà spesso neppure tra i migranti stessi. “Chi ha più testa la usi” mi ripete sempre una delle mie amiche più care e trovo sia la cosa migliore che si possa dire. Chi ha più testa continui a non abbassarla mai, continui a lottare, chi ha più testa non ceda alle lusinghe della lamentazione o della rassegnazione. Chi ha più testa sia orgoglioso di usarla ogni giorno e non abbia paura di essere fedele a se stesso.” Non chiniamo la testa. Mai. (S.E.P.)
Addio Lugano bella….Les anarchistes
https://www.youtube.com/watch?v=MUjuuIIGh0w

17 giugno, Marco Dinoi “Ti do i miei occhi di un tempo fa”
Stasera avrei dovuto essere qui a discutere del libro di Marco Dinoi finalmente arrivato in porto. Ma un lutto mi ha trattenuto in Maremma. Questo è allora l’intervento scritto che ho mandato.
“Cerco di rimediare alla mia assenza fisica con questo intervento scritto, conscio del fatto che non avrà mai l’intensità emotiva e lo svolgimento a braccio che gli avrei potuto dare in presa diretta.
Cercate di fare uno sforzo, con la fantasia, con l’intonazione e la vibrazione stessa delle parole che vi mando.
Ho seguito passo passo la nascita del progetto prima, e del libro poi. E’ una emozione forte quella di vederlo finalmente alle stampe. Un libro che ci corre incontro, abbraccia persino. Non è un libro come tanti altri. Come Marco non lo è.
Non è un libro facile o conciliante. Neppure Marco.
Scusate il mio parziale e modesto punto di vista, non sono un intellettuale di professione, ma un bracciante agricolo e anche un reporter, un fotografo, “un antrografo” come mi disse una volta Marco scherzando, mischiando antropologo e fotografo. Ma ci tengo a dirvi la mia, lo devo a Marco.

Vedete, questo libro, da subito, ha un sacco di meriti.
Ha riunito qui, e riunirà prossimamente in altri luoghi, in primis all’Università di Siena, tante persone che hanno conosciuto, incontrato, vissuto, litigato, voluto bene a Marco.
Non è nè poco nè scontato, in tempi grami, siccitosi di sentimenti e predisposti all’oblio.
Ha riunito per molto tempo, su e giù per l’Italia tutta, tante persone che si sono accalorate sul progetto, sul modo di far nascere questo libro. E che si sono poste tante volte la domanda: è giusto quello che facciamo, che avrebbe detto Marco?
Non so quello che avrebbe detto Marco, so però, l’ho sentito fortemente, che Marco era lì in quelle serate e nottate senza fine mentre scorrevamo le sue foto ed i suoi appunti. Era lì perchè semplicemente ognuno di noi ha oramai un po’ di Marco dentro di sè, e questo alla fine tra mille dubbi e ripensamenti ci ha comunque fatti arrivare in porto. Al libro che state sfogliando in questo momento.
Trovo questo, di per sè, straordinario. Non ci può purtroppo colmare il vuoto immenso che ci ha lasciato, ma aiutare a ripensare, attraverso i suoi appunti, scritti e fotografici, un tempo, un modo, una vita, questo sì.
E’ un libro splendido, è un taccuino, è un grumo di passato che ci parla, ci stura le orecchie.
Ogni volta che Marco tirava la leva per ricaricare la macchina fotografica, tratteneva il respiro e sorrideva immaginando il risultato. Non ci sono mai fotografie estetizzanti, cartoline vuoto a perdere. Marco domanda anche quando scatta un bianco e nero nella piazza qui vicina, oppure a New York, oppure in Palestina,il taglio, la curiosità la delicatezza è la stessa. E’ il mondo che entra e fluisce in noi attraverso il suo sguardo. E’ quella vita che lo pervade tutto, che ci comunica con le sue passioni, studi, insegnamenti, viaggi, fotografie, progetti. E ancora nottate a discuterne il senso, a scambiarsi impressioni, frammenti, bellezze. E’ un mosaico fatto di assenze. E’ un fotografare per sottrazione, per indurci a ricercare, colmare, comprendere.
La curiosità della vita e dei suoi meccanismi, gli incontri casuali, il porsi in ascolto. Ricordo una sua mail da Roma, mi descriveva un breve incontro notturno sul metrò con un tipo che nello spazio di due sigarette fumate comunque gli aveva squadernato tutta la sua vita. Commentava recriminando di non aver potuto fotografare, mi chiedeva di immaginare le foto non scattate.
Ecco, in fondo questo fa il libro che avete tra le mani. Vi chiede uno sforzo ulteriore, quello di immaginare altre foto, altri appunti, altri progetti.
Vi chiede di aprire gli occhi, adesso, con le foto di un tempo fa.
Con gli occhi di Marco. Con gli occhi di tutti quelli che hanno ripreso la sua matassa, cercando di sbrogliarla, di tendere questo filo che arriva qui a Manduria stasera, e che non si fermerà tanto facilmente, facendo tappa in altre città, ma principalmente, e lo dico senza alcuna retorica, nei nostri cuori sbrecciati e induriti. E mentre vi scrivo ritorno lì, a quegli appunti in corsivo vergati sopra a fogli volanti “Non si sceglie di fare fotografie, di scrivere o di raccontare. Lo si deve fare. Stop.”
Grazie Marco. Grazie a tutti coloro che hanno partecipato a questo progetto.
Un abbraccio forte.” (Stefano Pacini)

 

Chiedetelo a noi cosa è stato, cosa è il fascismo
Chiedetelo a Niccioleta cosa è stato il fascismo.Come “hanno difeso la patria, gli italiani” massacrando 83 minatori disarmati che volevano salvare il loro lavoro, le loro famiglie… chiedetelo a Massa Marittima dove trucidarono Norma Parenti, se volete vi porteremo a vedere, conoscere ..”perché i nazisti ammazzarono quei minatori in un lontano giugno del 1944? Il fronte stava per passare. Il tonfo delle bombe sganciate dagli aerei americani era sempre più incalzante, la contraerea tedesca sembrava un motore inceppato. I nazisti apparivano di tanto in tanto, pronti alla fuga eppure pericolosi, come cani mordaci. Stavano perdendo ma volevano portarsi dietro quei poveracci, perché non gioissero della loro disfatta. Perché quando uno sparuto gruppo di partigiani il 9 giugno 1944 aveva occupato Niccioleta e disarmato i carabinieri, i minatori li avevano accolti a braccia aperte, per poi togliere il sughero agli ultimi fiaschi di vino acetato rimasti in paese. Ma i fascisti locali non erano stati aggrediti: erano solo andati a fuoco in piazza divise e gagliardetti. Piccoli episodi che avvenivano ovunque, col fronte distante poche decine di chilometri, quando ormai chi poteva si convertiva per guadagnare rapidi certificati d’antifascismo: lo sapeva bene anche il direttore delle miniere, che cominciò a regalare dinamite ai partigiani di Gerfalco. Niente, rispetto al numero dei morti, alle bastonature e ai litri di olio di ricino che le squadre nere avevano imposto in quelle stesse terre, metallifere e quindi refrattarie al potere in maniera tellurica. Eppure l’odio ha radici più profonde dei pozzi di pirite. Qualcuno dei neri abbandona il paese di soppiatto per vendicarsi. Il messaggio di morte raggiunge un comando di polizia misto, formato da fascisti repubblichini italiani e nazisti. Arrivano da Sansepolcro per consolidare le linee nell’imminenza dello scontro con gli alleati e fanno tappa nell’Alta Val di Cecina per fronteggiare le azioni dei partigiani. All’alba del 13 giugno accerchiano il villaggio minerario di Niccioleta. Nella caserma a fare la guardia armata al paese ci sono proprio i fratelli Torlai. I nazifascisti disarmano, picchiano, minacciano, perquisiscono. Poi trovano una lista con l’elenco dei minatori che si sono organizzati, armi alla mani, per difendere le miniere e il paese, in vista di un sabotaggio dei nazisti in fuga. In realtà non è con due fucili da cinghiale che ci si può opporre ai nazisti. Il loro è un modo per dire ci siamo, stiamo difendendo le nostre case, abbiamo issato la bandiera rossa, poi la bianca, perché non vogliam più bombe, perché siam liberi. Torlai è in quella lista il cognome che si ripete più volte. Ma il colpo di coda del drago ferito è pericoloso. Radunano gli uomini. Vecchi odi riesplodono e alimentano nuove paure. Nel forno del paese si sentono ceffoni, urla e poi dei colpi d’arma da fuoco. Hanno ammazzato i primi minatori, quelli che in tasca avevano un fazzoletto rosso. Gli altri li mettono in coda. Se li portano via. Forse in Germania, forse a scavare trincee verso Larderello, chissà. I bambini danno l’ultimo abbraccio ai padri, le donne preparano un tascapane, quasi scendessero in miniera. I nazifascisti hanno detto cibo per tre giorni. Torneranno presto? Li radunano in un teatro a Castelnuovo Val di Cecina. Interrogano, dividono come si fa con le bestie. C’è il gruppo dei vecchi e quello dei giovani. Nel mezzo, quello più folto degli adulti. Un ragazzo di 21 anni chiede di andare col padre nel gruppo degli adulti. Con un sorriso i nazifascisti acconsentono. Non è compassione umana, è il male: quello è il gruppo dei condannati. Un fascista locale riceve un ordine: può salvarne sei. Ma lui sa contare solo fino a due: prende uno che non era “politico” e un altro, forse un amico, a un terzo sputa in faccia. Verso le sette di sera del 14 giugno, quando il sole ancora non vuol calare e la natura splende di bellezza, 77 minatori sono spinti fuori dal paese, verso un vallino in discesa, sormontato da tubi rumorosi pieni di vapore. Le mitragliatrici sono già pronte. La raffica, poi, diligente, il colpo di grazia. Pochi giorni dopo l’eccidio, quando il villaggio è già sotto la protezione dalle truppe americane, un cavallo azzoppato entra a Niccioleta. I bambini, orfani dei padri, gli danno da bere. «Lui» dicono, «è il nostro cavallo». Ma i grandi ribattono che non ce la può fare: va abbattuto. Un bambino si impunta, la mamma lo porta via. Un soldato americano avvicina la pistola alla testa della povera bestia. Risuona un colpo. Il bambino piange abbracciando le gambe della madre. Lei, inebetita, sussurra: «Così hanno ammazzato il tuo babbo». ( da un articolo per Repubblica di Alberto Prunetti, la foto dei funerali dei minatori è di Corrado Banchi. Quel bambino era, è, Bruno Travaglini. Se potete leggete il suo libro “un luogo, un tempo” struggente racconto dal punto di vista di un bambino della miniera, dell’arrivo della guerra, della strage..)
Ultime gradite pubblicazioni sulla strage di Niccioleta nella collana almeno un euro di Stampa Alternativa

“Il tempo corre e fluisce e solo la nostra morte riesce a raggiungerlo. La fotografia è una mannaia che nell’eternità coglie l’istante che l’ha abbagliata” H.C.B.

la foto è di Gianpaolo Sfondrini, Lago dell’Accesa, estate 1978, da sinistra Claudio, Eros, Giorgio

Claudio, Mucini, 1975

Una storia quasi soltanto mia
Certi luoghi, case,apparentemente fuori da qualunque pretesa storica o turistica, non solo possiedono una sorta di anima, ma trasudano racconti bellissimi di persone che nella Storia sono solo comparse.


Il podere dell’Ente Maremma n.181 viene costruito nel 1955. In quel periodo, durante la riforma agraria del dopoguerra, le case coloniche piccole con una scala esterna, il piano terra destinato a stalla e cantina e il primo piano ad abitazione,spuntano bianche tutte uguali come le margherite in un prato. Ogni podere della riforma agraria diventa proprietà del coltivatore diretto solo dopo 30 anni di residenza e lavoro della terra. Il podere n 181 viene posizionato sulla strada bianca (dal traffico quasi inesistente all’epoca) dell’alta Maremma che proseguendo in direzione nord arriva nella zona geotermica verso Volterra,e a cento metri da un bivio che a destra porta in un km a Niccioleta,villaggio minerario sorto negli anni ’30,una delle miniere di pirite più importanti delle Colline Metallifere,tristemente noto per la strage di 83 minatori del giugno 1944 ad opera dei nazi-fascisti. La miniera all’epoca è ancora ben attiva ed il villaggio è abitato da centinaia di minatori con le loro famiglie. Le campagne della zona si stanno spopolando, troppo forte la sirena di un lavoro sicuro e pagato nelle fabbriche o nelle miniere. Nel podere n 181 non c’è né energia elettrica né acqua corrente né telefono. Il bosco arriva fin sotto le finestre di casa, i campi circostanti pieni di sassi o infestati dai cinghiali. Il coltivatore diretto a cui è stato assegnato arriva, constata la situazione, scuote la testa e se ne va,rifiutandolo.

Mio padre Bovisio, che sta facendo il fattore nella Tenuta di Mucini della signorina Devoto ( la sorella del grande italianista) a un km di distanza, al bivio per Prata e Massa Marittima, coglie l’occasione e fa domanda per i suoi genitori. I miei nonni sono mezzadri da una vita nei pressi di Colle Val D’Elsa,ma il proprietario sta vendendo la tenuta, devono trovare a 65 anni suonati una nuova sistemazione. Per fortuna la domanda viene accettata, e quindi Santi e Pia si trasferiscono nella primavera del ’56, dopo la grande nevicata e gelata che ha distrutto tutti gli ulivi in Toscana e svuotato molti poderi. Mio nonno non si perde d’animo e pianta di nuovo una piccola oliveta. Intanto Il podere viene battezzato come da tradizione locale col nome del primogenito. Nel nostro caso mia sorella, nata a Sticciano nel ’51 dove mio padre, che aveva nel frattempo sposato nella Montagnola senese Marisa nel ’49, esercitava da quando si era trasferito in Maremma con mia madre in cerca di terra propria da coltivare e fortuna. Invano la mia nonna materna Beppina lo aveva ammonito con una strofa dantesca del V canto del Purgatorio “ricorditi di me che son la Pia/ Siena mi fe’, disfecemi Maremma ! “ Nasce perciò il podere “S. Patrizia” che confina con i poderi dell’Ente Maremma “S.Lorenzo” e “S.Giorgio” delle famiglie Radi. Quell’autunno del ’56 nasco (in casa con la levatrice,non in ospedale) anch’io e la famiglia è al completo. Intanto mio padre ha rimesso a posto una jeep e un rimorchio lasciati dagli americani a Mucini durante il passaggio del fronte, e con dei candelotti di dinamite rinvenuti in una cassa fa saltare i massi per spianare l’aia intorno casa.

Con i vicini i rapporti sono di mutua assistenza: viene comperata insieme una pressatrice per il fieno e usata a turno. Viene anche convocato un rabdomante che scova una falda d’acqua e tutti insieme tiriamo su un pozzo con la girante a vento che comanda la pompa, senza bisogno di pompe elettriche. L’acqua va in un deposito che abbiamo scavato nel bosco e per caduta raggiunge i tre poderi. Mia madre intanto, seconda donna in paese,ha preso la patente per auto e camion,e aperto nel 1961 un emporio di ferramenta e generi vari stile Far West nel corso principale di Massa Marittima. Viene subito soprannominata, per il mestiere di mio padre e l’energia tutta sua, “la Fattora”. Personaggio notevole sicuramente,se ancora oggi in zona più che con il mio nome o soprannome giovanile (Paco) molti si ricordano di me come “il figlio della Fattora”. Intanto il podere si allarga: nascono una stalla (di cui conservo ancora le lavagnette con i nomi delle mucche che mio nonno chiamava e comandava come cagnolini ad una ad una: Alba, Unire, Tenebrosa, Tinca, Uva…) ed un fienile in muratura oltre al pollaio e al castro dei maiali. Ci sono rattoni talmente grossi che spesso i gatti si danno alla fuga e le trappole normali vengono distrutte. In casa d’estate mia nonna spara il ddt con una pompetta a stantuffo e le mosche cadono a centinaia, noi incredibilmente sopravviviamo. I cinghiali che irrompono nell’orto e nei campi vengono presi a fucilate dalle finestre di casa da amici cacciatori, notte e giorno, noi ragazzi ci divertiamo durante queste sparatorie più che a vedere “Mezzogiorno di fuoco”. Ma il piatto principale rimane la panzanella,e i prodotti dell’orto, poi il maiale che uccidiamo e trattiamo in cantina a gennaio. Mio padre fotografa spesso e volentieri con una piccola Ferrania e d’agosto partiamo tutti con una Fiat 1100 per raggiungere avventurosamente qualche giorno le Dolomiti nonostante che i nostri amici andassero in lambretta o bus al vicino mare di Follonica. Nel 1970 viene aggiunta una stanza ed un terrazzo coperto esterno. La sera d’estate nel buio quasi assoluto con la luce fioca delle lampade a petrolio mio padre ci porta fuori a guardare le stelle, ci insegna le costellazioni mentre un mare di lucciole ci fanno il solletico. Conclude sempre la serata con una dichiarazione netta ” c’è da perderci il capo !” Finalmente nel 1973 l’Enel allaccia a noi e ai poderi dei Radi la corrente elettrica. Divento perito tecnico minerario ma rimango a lavorare la terra, che mio padre ha messo su dal niente 4 ettari di vigna, perdendoci la salute.


Mia sorella si sposa nel ’77 e va a vivere in Calabria, gli nascono i figli Massimiliano ed Alessia. D’estate ci vengono a trovare e il podere negli anni ’80 diventa affollato e pieno di vita come durante le trebbiature degli anni ’60. Perchè nel 1980 avvengono i cambiamenti più grandi: le tettoie aperte a sinistra della scala diventano due garage, il tetto di una di queste un grande terrazzo aperto al primo piano, e la cantina e i granai del piano terra un appartamento che abiterò, che mi sono appena sposato e all’epoca ancora lavoro nel podere, producendo uva, fieno, grano, olio. Nel 1982 nasce mio figlio Emiliano, nel 1985 Raffaello. I miei nonni non ci sono più e mio padre li seguirà prematuramente nel 1993. Intanto sono diventato fotografo a tutti gli effetti, ho fatto della passione che mi aveva trasmesso Bovisio un mestiere. Nel frattempo pianto una nuova piccola oliveta dopo che la gelata del 1985 aveva distrutto la precedente di mio nonno. Il lavoro mi porta spesso a Siena, divento un pendolare,viaggio spesso anche all’estero,e i miei figli dopo le scuole prendono la via dell’Europa. Le miniere sono tutte chiuse, le fabbriche agonizzano, in campagna c’è posto solo per grosse tenute o agriturismi con piscina per compiacere turisti che hanno una immagine stereotipata da cartolina della Toscana. “Finirà che ve ne dovrete andare o diventare delle comparse da film” aveva previsto profetico negli ultimi tempi Bovisio. Nel 2008 è il turno di mia madre: le ultime parole della “Fattora” sono di affetto e ammirazione per i nipoti che la rendevano felice e di sgomento per un mondo sempre più egoista. La casa viene messa in vendita,non c’è lavoro in zona, ma l’ho abitata solitario sino all’ultimo, diventerà un agriturismo a cura di nuovi proprietari. Il digitale ha ucciso la vecchia fotografia: adesso lavoro più in campagna come bracciante che come fotografo, ma nel senese, non in Maremma. Gira gira sono ritornato nei luoghi di origine dei miei nonni, non so bene se come ultimo dei moicani della epopea contadina familiare o come vendicatore della Pia dei Tolomei.
La storia di questa podere e della mia famiglia tutto sommato rispecchia la storia del nostro Paese: grandi slanci, speranze, entusiasmi e delusioni, fra tanta fatica e lavoro ininterrotto. Dalla ricostruzione al boom economico degli anni ’60, e ancora la modernità,il benessere e l’arricchimento che parevano mai terminare di fine secolo, l’avvento del digitale nel terzo millennio e la grande crisi degli ultimi anni, la diaspora dei nostri figli in cerca di lavoro e fortuna altrove, la scomparsa dei pionieri che avevano creduto in una vita migliore per la loro discendenza. Adesso per questa casa inizia una nuova storia, una nuova vita, ha ancora un’altra opportunità, circondata da bosco e cinghiali, che alla fine l’hanno avuta vinta,sempre sotto quel tetto di stelle e in mezzo alle ultime lucciole.
( Erasmo, giugno 2017)

Dialoghi captati in strada,Siena. Signora di una certa età a signora giovane: “eh cara, sì, è un peccato dover gettare il cibo avanzato, io lo darei anche ai poveri, a tutti questi…questi qui (indica vagamente un gruppo di migranti) ma come si fa? E poi venissero a bussare a casa e dicessero: ho fame, ecco allora…” La signora giovane annuisce, prova a far notare che forse si vergognano e che comunque ci sono le mense per i poveri, ma l’altra non l’ascolta nemmeno e tira dritto ” e invece questi negri che non sono più nemmeno negri stanno tutto il giorno a parlare al telefonino ! ” (della serie: non ci sono più nemmeno i negri di una volta, uffa !)
La ferocia, la violenza verbale e fisica rivolta costantemente verso i poveri, gli ultimi e i diseredati è la più grande vergogna di questi anni bestiali.

Per chi non la conoscesse Radio Cane
http://www.radiocane.info/vexata-quaestio/



C’era una volta un paese in Basilicata che si chiamava Salvia dove era nato un uomo: Giovanni Passannante.
Nel 1878 con un coltellino con una lama di quattro dita cercò di uccidere il re Umberto I di Savoia. Condannato a morte la pena gli fu convertita in ergastolo mentre sua madre e i suoi fratelli furono immediatamente internati nel manicomio di Aversa. Passannante fu rinchiuso in una torre sull’isola d’Elba in una cella senza finestre sotto il livello del mare dove fu isolato per dieci anni. Si ammalò, cominciò a cibarsi dei propri escrementi. Anni dopo fu trasferito in un manicomio criminale dove morì nel 1910. Grazie alle teorie del Lombroso al cadavere fu tagliata la testa. Il cranio e il cervello esposti nel Museo Criminologico di Roma dove sono stati “ammirati” per quasi un secolo.
Film completo su Passannante   https://www.youtube.com/watch?v=8kDkd-xhcWc

“L’utopia accende una stella nel cielo della dignità umana, ma ci costringe a navigare in un mare senza porti.” Ottanta anni fa l’anarchico Camillo Berneri veniva assassinato con Francesco Bertini dai sicari stalinisti nella Barcellona rivoluzionaria. Tesi a stroncare il fervore rivoluzionario, riuscirono così anche ad affossare la repubblica spagnola.

Sui misfatti del lavoro

Attila Toukkour
«Lavoro: una delle operazioni attraverso cui A accumula beni per B»
Ambrose Bierce, “Dizionario del Diavolo”
Contrariamente ad una idea diffusa ad arte dai centri di condizionamento dello spettacolo moderno, il lavoro non è una catastrofe naturale. È un male sociale, il cui falso rimedio, la disoccupazione, fa peggiorare il cattivo stato del paziente e talvolta lo finisce.
Consideriamo per prima cosa le origini del lavoro. Si sa che in tutte le lingue il termine deriva da strumenti di tortura o che è sinonimo di sofferenza, sforzo estenuante, pena ed afflizione. La Bibbia ne fa la punizione divina ed i miti universali parlano di una età dell’oro originale indenne dall’obbligo del lavoro.
È proprio ciò che hanno confermato le serie ricerche sulla preistoria condotte da Marshall Sahlins. Il cacciatore-raccoglitore, prima dell’invenzione dell’agricoltura, delle classi e dello Stato, non lavorava; si dedicava alle libere attività dell’essere umano, che consistevano nel cacciare e raccogliere, mangiare, dormire, godere e viaggiare.
Il lavoro inizia storicamente con il dominio di un uomo sul suo simile, di una classe su un’altra. Si tratta sempre di una classe improduttiva (preti e possidenti) che condanna al lavoro una classe produttrice e ne accaparra la produzione. Dominio e sfruttamento sono una sola ed unica cosa. Ciò che separa la libera attività dal massacrante lavoro consiste quindi nella accumulazione di frutti dell’attività di un individuo che si trova costretto a produrre per qualcuno estraneo alla sua produzione e che se ne appropria. Il lavoro crea ricchezza, ma quella altrui. Sotto il segno del denaro, oggi non si lavora più per il re di Prussia, ma per il re del petrolio e quello del Texas!
Così il lavoro sanziona il passaggio della libertà originale alla schiavitù, che solo di recente ha fatto posto, per soddisfare le esigenze del commercio mondale (ormai chiamato globalizzazione), alla sua versione aggravata: il salario generalizzato. Già Nicolas Linguet, filosofo dei Lumi, vedeva nella schiavitù salariata un peggioramento dell’antica schiavitù.
Il lavoro non è solo l’insicurezza sociale; è soprattutto il supplizio quotidiano dell’uomo abbrutito dalla ripetizione di compiti insipidi e alienanti. Lavorare è una debolezza quando si può farne a meno e fare qualcosa di meglio: è quanto hanno sostenuto lungo tutta la storia le élite intellettuali che disprezzavano il lavoro. Le raffinate civiltà dell’India, della Cina e della Grecia antiche ponevano il lavoro al di sotto di tutto. Gli indigeni delle Antille preferivano, nel Rinascimento, cessare di riprodursi piuttosto che piegarsi al lavoro imposto dagli europei e ancora oggi nello Sri Lankais si mutilano più volentieri al fine di mendicare piuttosto che subire l’obbligo del lavoro.
Del resto, tutte le lingue possiedono dei detti che rimettono il lavoro al suo posto, l’ultimo: «Lavorano solo quelli che non sanno fare altro» dicono i portoghesi, mentre i russi assicurano che «lavorando si diventa più velocemente gobbi che ricchi»!
Ai  giorni nostri è la miseria generale generata dal mondo capitalista della produzione forsennata a curvare così sovranamente la schiena dello schiavo moderno sotto questo flagello laborioso. L’ozio rimane il sogno impossibile del proletario incatenato ad orari estenuanti, sventurato su cui incombe la precarietà. Il paese più «sviluppato», gli USA, ha compiuto un passo in più nell’abiezione creando una classe numerosa di working poor: la massa di coloro che devono sgobbare duro per non morire di fame senza poter sfuggire alla fame.
Infine, il lavoro è diventato la causa di tutti i mali che affliggono la società spacciata per moderna e che si trova ad essere la più degradante di tutte quelle che si sono susseguite dalla comparsa dell’uomo sulla terra. È al lavoro, ormai non solo inutile ma nocivo, che si deve l’inquinamento universale del globo terrestre ad opera dei prodotti industriali, chimici, farmaceutici, nucleari, eccetera. L’avvelenamento generalizzato dovuto al lavoro forsennato degenerato in epidemie che si credevano scomparse e le malattie da prioni sono alcuni tristi esempi. La folle logica del profitto conduce «in modo naturale» alla pazzia in massa delle mucche altrettanto funestamente che all’estinzione delle specie animali e vegetali. Sono anche le ricadute del lavorio alienato a rendere l’acqua imbevibile e l’aria irrespirabile.
In breve, non è l’ozio ad essere il padre di tutti i vizi, è il lavoro ad essere il padre di tutte le decadenze. Mens sana in corpore sano, l’antico adagio dei nostri avi che invocano uno spirito sano in un corpo sano non può concepirsi oggi senza fare appello alle virtù della pigrizia.
È l’ozio che ormai occorre riabilitare in maniera urgente, contro coloro che ci derubano del nostro tempo, contro i vampiri che ci assassinano poco alla volta nel nome del mercato e dello Stato. Bisogna considerare l’ozio come una attività creatrice, alla stregua della passione della distruzione cara a Bakunin. Per l’irrimediabile nemico di un mondo che ci conduce alla morte con la miseria del lavoro ed il lavoro della miseria, l’ozio serve nel vero senso della parola la qualità del tempo ritrovato, di un presente che mira a rivalorizzare i piaceri di una vita intensamente vissuta.
Morte al lavoro. Facciamola finita con la noia di un mondo laborioso!
Calcutta-Bombay, 10-13 aprile 2005

Se non conoscete Alessandro Pagni e i suoi scritti (fotografici) ecco, è giunto il momento che cominciate a separare il grano dal loglio

(foto Egle Picozzi ,  Emiparesi della serie SM – Sclerosi Multipla )
Sono sei anni ormai, lo so dal 2011.
Anche se i sintomi risalgono a dicembre dell’anno precedente.

È cominciato tutto con un periodo di frequenti capogiri, sebbene non li abbiano mai associati alla malattia. La sensazione era quella di trovarmi su una barca mentre sta dondolando.
Poi una domenica, dopo aver passato il pomeriggio a giocare con il cane di un amico, si è presentato per la prima volta il formicolio alla mano. Credevo dipendesse dal tempo passato a lottare con lui per strappargli di bocca la pallina di gomma preferita, ma la sensazione è rimasta, peggiorando progressivamente: ho cominciato a incontrare difficoltà nello scrivere, per lavarmi i denti ho dovuto usare l’altra mano, lo stesso per asciugarmi i capelli. E la cosa è andata avanti così fino al primo ciclo di cortisone, cinque mesi dopo…..
continua a leggere…   http://www.inchiostrovirtuale.it/sclerosi-multipla-visioni/

A proposito di vaccini, vaccinismo e libertà, un intervento di Umanità Nova

Come anarchici, non possiamo che essere critici, per altro, rispetto al concetto di libertà di scelta, utilizzato da molti convinti no vax, applicato a un soggetto terzo non consapevole quale un neonato e in base a degli assunti di partenza non razionali e non materialmente fondati, sopratutto se giustificata con retoriche familistiche che implicano il concetto di proprietà della prole.

Detto ciò, appare evidente che il decreto Lorenzin faccia acqua da tutte le parti. È un decreto, come già scritto, cretinissimo e ipocrita.

continua a leggere…
http://www.umanitanova.org/2017/06/11/mai-la-merce-curera-luomo-e-figuriamoci-se-lo-fara-lo-stato/


Guglielmo Manenti

Nestor Machno, il cosacco dell’anarchia
Film completo   https://www.youtube.com/watch?v=gzOqhaygpcs


In ricordo di Demetrio Stratos…..
https://www.youtube.com/watch?time_continue=1&v=81PMx5ndpnc

“Penso agli uomini e alle donne che, oggi in Italia, chiedono l’elemosina agli angoli delle strade. Penso a quelli che sbarcano dalle navi e lavorano dodici ore al giorno raccogliendo i pomodori del cui gusto sbiadito ci lamentiamo. Penso a chi non ha una casa, agli operai abbandonati dei sindacati, ai ragazzi delle periferie che odiano i poliziotti e, magari, odiano anche gli stranieri. È evidente che, per questa gente, non esistono prospettive di miglioramento riformistico. Il sistema puó propinargli al massimo l’educazione civica e gli assistenti sociali. Quando non bastano, si aprono come sempre, come una volta, le porte della galera. Ecco perché servono i comunisti e le comuniste. Per fargliela pagare cara. Per sommare le forze. Per rendere efficace la rabbia e avere una linea di condotta capace di costruire un’alternativa al mondo dei ricchi e dei potenti. Questo lavoro consuma le generazioni. La nostra, quella degli anni Settanta, ha provato ad andare fino in fondo, e si è sporcata le mani nella lotta e nella sconfitta. Non è capitato solo a noi. Non siamo stati i primi e non saremo gli ultimi.”
Pasquale Abatangelo, “Correvo pensando ad Anna”.

“Dichiarandoci anarchici proclamiamo inanzi tutto che rinunciamo a trattare gli altri come non vorremo essere trattati noi da loro; di non tollerare più la disuguaglianza che permetterebbe ad alcuni di esercitare la propria forza astuzia o abilità in maniera odiosa. Ma l’uguaglianza in tutto- sinonimo di equità- è la stessa anarchia ”
Petr. A. Kropotkin La morale anarchica
scarica qui gratis il libro
http://stradebianchelibri.weebly.com/millelirepersempre.html

L’anarchia spiegata a mia figlia : il nuovo libro di Pippo Guerrieri, BFS edizioni qui in free download e streaming
https://archive.org/details/LanarchiaSpiegataAMiaFiglia
Io non credo nei partiti. Ma non perché siano stati occupati da persone disoneste. Io non credo nei partiti perché non credo nella delega. […] Non sono un comunista. Io sono anarchico. Non mi interessa che il popolo vigili sull’amministrazione pubblica. Io non credo che il popolo debba essere amministrato da qualcuno. Io voglio il superamento di questa democrazia, non che venga amministrata decentemente. Questo era il dibattito negli anni ’60 rispetto ai manicomi. Qualcuno voleva umanizzarli, qualcun altro cancellarli. Si umanizza un’istituzione disumana solo cancellandola. ”
( Ascanio Celestini )
https://www.youtube.com/watch?v=m4Ze55-ygRg

le foto di questo numero sono di Stefano Pacini, facenti parte del progetto fotografico “Noi sogniamo il mondo “, fotografi citati o di autori non identificati che ringraziamo anticipatamente
Link utili
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Maremma Libertaria Esce quando può e se e come gli pare. Non costa niente, non consuma carta e non inquina, se non le vostre menti. Vive nei nostri pensieri, perchè le idee e le rivoluzioni non si fanno arrestare, si diffonde nell’aere se lo inoltrate a raggera. Cerca di cestinare le cartoline stucchevoli di una terra di butteri e spiagge da bandiere blu, che la Terra è nostra e la dobbiamo difendere! Cerca di rompere la cappa d’ipocrisia e dare voce a chi non l’ha, rinfrescando anche la memoria storica, che senza non si va da nessuna parte. Più o meno questo è il Numero 23 del 21 giugno 2017. Maremma Libertaria può essere accresciuta in corso d’opera ed inoltro da tutti noi, a piacimento, fermo restando l’antagonismo , l’antifascismo e la non censura dei suoi contenuti.
In Redazione, tra i cinghiali nei boschi dell’alta maremma, Erasmo da Mucini, Ulisse dalle Rocche, il fantasma della miniera, il subcomandante capraio, Alberto da Scarlino, Alessandro da Grosseto, Antonello dalla Tuscia, Luciana da Pomonte, complici vari , ribelli di passaggio, maremmani emigrati a Barcelona e Cagliari
No copyright, No dinero, ma nel caso idee, scritti, foto, solidarietà e un bicchiere di rosso.
My way Sid Vicious !
http://youtu.be/HD0eb0tDjIk

Nostra patria il mondo intero, nostra legge la Libertà, ed un pensiero Ribelle in cuor ci sta
(Pietro Gori)
http://youtu.be/_KVRd4iny8E

Potranno tagliare tutti i fiori, ma non riusciranno a fermare la Primavera
(Pablo Neruda)
http://youtu.be/wEy-PDPHhEI
(Victor Jara canta Neruda)

Sempre, comunque e dovunque : Libertà per tutti i compagni arrestati !– Fori i compagni dalle galere !-Libertad para todos los presos ! – liberdade para companheiros presos! -comrades preso askatasuna!- liberté pour les camarades emprisonnés!-freedom for imprisoned comrades !- Freiheit für inhaftierte Genossen!- ελευθερία για φυλακισμένους συντρόφους ! – الحرية لرفاق