Maremma libertaria n 14

I buoni propositi per il nuovo anno…


La prima cosa che fecero nel 1871 i rivoluzionari a Parigi, dopo aver proclamato la Comune, fu quella di fucilare tutti gli orologi, mentre a Barcelona nel 1936 toccò a statue e mummie religiose.
Il tentativo era comunque quello di riprendere in mano la propria vita, il tempo, la memoria, senza padroni, orari e castigatori divini. Consci che il lavoro salariato imposto dai padroni era una gabbia mortale al pari della morale imposta dalla chiesa. Bakunin in Dio e lo Stato scriveva:” Dio appare, l’uomo si annienta, e più la divinità si fa grande, più l’umanità si fa miserabile. Ecco la storia di tutte le religioni. Ecco l’effetto di tutte le ispirazioni e di tutte le legislazioni divine. Nella storia, il nome di Dio è la terribile vera clava con la quale tutti gli uomini divinamente ispirati, i “grandi geni virtuosi”, hanno abbattuto la libertà, la dignità, la ragione e la prosperità degli uomini”.

Per cui ha ben poco peso e significato il nostro occidentale calendario papale che scandisce tempi e orari che non ci appartengono. Duemila14 o millequattrocento, anno della scimmmia o del cinghiale, l’unico tempo che riconosciamo è quello liberato dalla schiavitù dell’uomo sull’uomo, quello del naturale fluire delle stagioni non più piegate da uno “sviluppo” forsennato e distruttivo. Quindi, ora e sempre, dalla Maremma Libertaria che fu di Luciano Bianciardi, il nostro pensiero e solidarietà attiva va a tutti i fratelli e compagni incarcerati, ristretti, perseguitati, costretti alla clandestinità , alla fame, alla fuga, a vivere lontani dai propri cari e dal proprio paese, va a tutti coloro che non chinano la testa e non smettono di sognare, lottare, ribellarsi, per una società senza sfruttati, per una comunità di liberi, uguali, solidali. Sognando l’anarchia, dalle colline metallifere, la redazione sparsa per il mondo intero.

Il dolce veleno della tolleranza

Nulla di più ingannevole, di più nocivo e dannoso della tolleranza, sia come concetto in quanto tale, che nella sua applicazione politica. Non solo serve da balsamo pacificatore al potere costituito, ma è l’idea di partenza, pur benevola, del rispetto e della vita in comune armoniosa, ad essere perversa.
Quando il comune mortale evoca la «tolleranza», si preoccupa di rispettare chi gli sta accanto, di «permettergli» di essere diverso o di vivere la propria vita entro certi limiti. Ma quando si dice tolleranza, si parla in realtà – in modo sottinteso e conciso – di rassegnazione.
Quelli che, pagati dal potere, si sforzano a spiegarci come vanno le cose, usano il concetto di «tolleranza logica» come idea benintenzionata di rispetto reciproco, di non ingerenza nella vita altrui. Tuttavia, sono altri i concetti che si nascondono dietro e la cui applicazione cementa il civismo, così come contribuisce a deteriorare ancor più la nostra vita. La «tolleranza politica» è applicata dal potere in un’abile manovra di manipolazione e d’indottrinamento, al fine di farci interiorizzare i valori di rassegnazione già citati. Nella società, tolleranza significa tollerare il padrone, ovvero consentirgli di commerciare, di speculare sulle tue spalle, di dirti cosa devi fare, quando, come, in quale quantità e a quale ritmo e infine, di sbatterti per strada quando gli fa comodo. Questo supponendo che tu faccia parte di quegli schiavi salariati felici che, in cambio del loro sudore, riceveranno qualche briciola alla fine del mese per comprare quanto hanno essi stessi prodotto. Nella società, tolleranza è anche sopportare, se nessuno vuole sfruttarti, di fare la coda durante il giorno per la disoccupazione o davanti alle bacheche degli annunci di impiego. Tolleranza è rassegnarti a permettere alla polizia di aprirti la testa le rare volte che esci a protestare (cioè a reclamare rimedi dagli stessi governanti che sono la causa dei tuoi mali) contro ciò che ti ostacola e ti opprime. Non è solo dar loro il permesso, ma per di più non reagire, con la giustificazione «che anche loro sono lavoratori con una famiglia da mantenere». Sì, certo, come le SS che bruciavano gli ebrei nei forni crematori, ricevevano anche loro degli ordini ed avevano famiglie da mantenere. Abbiamo quasi tutti una famiglia da mantenere.
È questa la tolleranza, accettare una vita di servitù, monotona e grigia, sporca e inquinata, mentre altre persone prosperano a nostre spese, ci sfruttano, ci discriminano, ci espellono, ci violentano, ci indottrinano, ci sottomettono, ci rinchiudono.
No, non si tratta solo del politico col conto in Svizzera che aumenta le proprie entrate abbassando quelle degli altri, che fa dei tagli da buon amico di un banchiere speculatore. È tutto un sistema sociale, politico ed economico (con altre implicazioni ancora) che si materializza attraverso lo Stato (che, ricordiamolo, legifera, esegue, controlla, sorveglia, agisce, punisce, condanna, regola…) ed attraverso il capitalismo, questa espressione economica perversa di un modello di produzione e di riproduzione di beni e di rapporti sociali mercificati. E una delle cose di cui lo Stato dispone per conservare la pace sociale necessaria alla perpetuazione dell’ordine e dell’attuale stato di cose è la tolleranza. Che consiste anche nel persuadere i suoi sudditi che occorre essere pazienti, mantenere la speranza, avere fiducia nel sistema che li salverà, mentre li condanna alla miseria, e nei suoi amministratori, gli stessi che li sfruttano e li opprimono, fra le altre cose grazie al civismo.


Un grande proprietario terreno ricco e corrotto, che aveva fatto la guerra per costituire la più grande forza mondiale di estorsione, sfruttamento ed oppressione (cioè gli Stati Uniti), ha detto chiaramente «siccome i governati hanno dalla loro la forza numerica, per farsi obbedire i governanti non hanno altra via che quella della persuasione» (James Madison, 1783). Ovviamente, ciò non vuol dire che le loro mani esiteranno al momento di usare la forza, ma sempre in maniera tollerante, civica, democratica e non violenta, poiché sono sempre gli altri ad essere i violenti. Come diceva quel pazzo saggio ed irriverente di Max Stirner, parafrasato dalla Polla Records in una brillante canzone, «quando è l’individuo ad usare la violenza contro lo Stato, si chiama violenza, ma quando è lo Stato ad usarla contro l’individuo, si chiama diritto».

(Assemblea Libertaria st. Andreu-Barcelona )

Programma mese dedicato a Marco Dinoi (1972-2008) , mostre, film , eventi

17 gennaio dalle 19.30, presso l’Artigianato Persiano di Mohsen Sariaslani (Siena, via Pantaneto 128/130), si inaugura la mostra fotografica di Marco Dinoi Ti do i miei occhi. Sarà possibile visitare la mostra fino al 6 febbraio.

Gli altri appuntamenti:
Giovedì 30 gennaio
Università di Siena, Palazzo San Niccolò (Via Roma 56), aula 354
Proiezione del video-documentario di Marco Dinoi e Nicola Perugini  Appunti per un lessico palestinese (2008, 52′). La proiezione sarà introdotta da una presentazione di Giacomo Tagliani, operatore e montatore del film.

Venerdì 31 gennaio
Corte dei Miracoli (Siena, via Roma 56)
– 18.00: Inaugurazione della mostra fotografica di Marco Dinoi sulla Palestina
– 20.00: Cena palestinese (prenotazioni al 3288822759)
– 22.00: Proiezione del documentario di Dimitri Chimenti Just Play (2012, 58′)

Marco Dinoi , un fotografo silenzioso

Le foto qui esposte varcano confini, raccontano e si snodano dentro e attraverso la vita stessa, fluiscono negli anni, in un tempo che ricordiamo lungo e che, invece, è stato terribilmente breve per Marco, pur nella sua splendida intensità.

Ci raccontano un fotografo attento, sensibile, pronto a osservare lo spettacolo dell’umanità declinato nelle piazze del Mondo, nei modi variegati del gioco degli anziani o dello stupore del bambino, nell’incanto dell’amore o nelle domande inevase della vita. Bianchi e neri senza datazione, che fanno spazio, sul finire del tempo, al colore per continuare a raccontare la Palestina.

Marco non invade il campo, ma silenziosamente e con rispetto, fa domande con le sue fotografie.
“ Una bella immagine chiede. Chiede in primo luogo di essere percorsa e ripercorsa. Letta e riletta. Chiede di essere completata. Chiede allo spettatore, in un certo modo, in un certo senso, di continuare. Chiama lo spettatore a un ruolo attivo di autore. E’ lo spettatore che pensa, che dà giudizi. Chiede. Chiede. Anche la verità sembra fatta di domande. Domande che non finiscono mai, che non si esauriscono mai.” (Tano D’AmicoDi cosa sono fatti i ricordi).


Marco ci pare silenzioso ma sorridente anche quando si trova a pochi palmi dai bambini palestinesi, non cerca immagini ad effetto, prende appunti per i suoi prossimi lavori, non si pone il problema della bellezza formale dello scatto, anche perché sa che in fin dei conti è solo una fotografia e come tale può anche non servire a niente, come può non servire a niente l’amicizia, l’amore, la bellezza. Pur non servendo a niente sono fotografie che hanno dignità propria, che aiutano a vivere e, allo stesso tempo, mostrano legami, mostrano amicizia, mostrano amore, e tanta, tanta bellezza.
(Stefano Erasmo)

“Aspetterò domani, dopodomani e magari cent’anni ancora finché la signora Libertà e la signorina Anarchia verranno considerate dalla maggioranza dei miei simili come la migliore forma possibile di convivenza civile, non dimenticando che in Europa, ancora verso la metà del Settecento, le istituzioni repubblicane erano considerate utopie. E ricordandomi con orgoglio e rammarico la felice e così breve esperienza libertaria di Kronstadt, un episodio di fratellanza e di egalitarismo repentinamente preso a cannonate dal signor Trotzkij.”
(Fabrizio De Andrè )

Certe fiction televisive oltre che miserabili sono ridicole, la verità non si può tacere, Giuseppe Pinelli è stato assassinato

Carrara…

Canterò la poesia / della mia vera famiglia / madre mia l’anarchia / e per babbo una buona bottiglia..
Luca Faggella canta Piero Ciampi

continua il tour di
disastrartcollages.wordpress.com


dalla Maremma a Barcelona

prossimamente su questa rivista…

Nota evocativa- Oriente ultima frontiera

Era l’estate del ’69 quando per me tutto davvero iniziò. Arrivavo con il bus a Follonica, fino a Pratoranieri, allora famosa per tre grandi pini sulla spiaggia a pochi metri dal mare. Qui era sorto un piccolo villaggio alternativo formato da due piccole tende e molti ragazzi e ragazze della zona o di passaggio, autostop zaini e sacchi a pelo, capelli lunghi e sorrisi, chitarre e discussioni, bimbi , cani, turisti diffidenti e complici,e una bandiera rossa e nera, che alcuni scambiavano per calcistica invece che anarchica.

E una mattina arrivarono due carabinieri in bicicletta chiedendo chi fosse il capo, ottenendo una risata collettiva e una risposta da Roberto “qui non ci sono capi”. Fu in quell’estate che sentii parlare per la prima volta dell’India, non come terra di grandi carestie ma come meta di un viaggio alla ricerca di una nuova spiritualità, di incontri, scoperte, per varcare insieme a lontane frontiere il confine invisibile tra l’adolescenza e una giovinezza più consapevole.
L’inverno dell’anno seguente tornò dal viaggio in oriente Mario, il figlio del maestro della scuola elementare di Massa Marittima, il primo per il nostro paese maremmano almeno dai tempi di Marco Polo. Ricordo che organizzò una proiezione pubblica di diapositive alla Associazione Misericordia, e tutti noi lì a guardare la proiezione ed ascoltare le sue spiegazioni per ore, non saremmo mai andati via.

Era una generazione in rivolta,  una generazione in cammino, ansiosa di scoprire e conoscere, alla ricerca di se stessa e di nuovi modi di vivere più egualitari, più profondi: volevamo cambiare tutto in profondità, non riformare qualcosa o dettare nuove mode. Uscì per Stampa Alternativa il manualetto “Andare in India” con le dritte, informazioni e considerazioni di migliaia di fratelli e sorelle che in quel periodo avevano preso le strade dell’oriente. Fabio, che è il coprotagonista del libro, aveva fondato a Follonica il collettivo di controcultura. Kerouac e “Sulla strada” una bibbia comune, e il viaggio con Maurizio maturò in modo naturale. Era un viaggio vero, senza “paracadute”senza telefoni o mezzi di comunicazione rapida, con mesi di autostop o mezzi scassati e soggetti a incidenti,  budget ridicoli, e sostenuto più che altro dalla solidarietà degli altri viaggiatori di tutto il mondo incontrati durante il viaggio. Era scoperta, stupore, meraviglia, era varcare colonne d’ercole considerate intangibili fino a pochi anni prima. Come bene spiega Maurizio :

nelle mie migliori intenzioni il viaggio non aveva un limite; non sapevo dove sarei andato, quanto sarei rimasto, tutto pareva possibile e la scoperta di quell’economia frugale mi rinfrancò e incrementò i miei sogni. Ancora una volta pensai agli amici lasciati a casa con i quali avevo condiviso il fremito gioioso che serpeggiava per le strade d’occidente: compresso dal mondo del metallo e delle consapevolezze questo sentimento spingeva verso la liberazione per ritrovare la purezza dell’infanzia, il sogno che predomina sulla realtà

E a noi rimasti da quest’altra parte del mare, nella nostra piccola, grande, selvaggia,profonda provincia maremmana, immaginavamo, sentivamo quello che stava accadendo ai nostri amici con la fantasia più che con le rare e scarne notizie che ci potevano dare le famiglie. Negli anni a seguire molti avrebbero ripercorso il Viaggio.

Maurizio termina il suo racconto nel ’76 , una vita fa, un mondo fa, e non solo per le modalità del viaggio e le differenze geopolitiche. Quel mondo non esiste più, quella generazione in cammino si è dispersa in mille rivoli, molti nostri amici e fratelli non sono più con noi, ma a me piace sentirli ancora sulla pelle e nel cuore con le parole di Maurizio:

Cos’è quel senso che ti pervade tutto, quando rimani solo sulla banchina rituale dell’esistenza e quelli che divisero con te il tempo e i pensieri inesorabilmente si staccano? Quante volte dovevo provare quel gusto amaro! Era lo stesso delle perdute estati di un tempo e aveva il medesimo umore della nostalgia portoghese di Goa che si confondeva con quella della mia infanzia ed ora di fronte a quell’eterno distacco tutto mi ritornava, fino allo sgomento di perdere i nostri angoli di soave penombra che già le luci delle responsabilità a venire minacciavano. Abbandonavamo per sempre i magici orpelli (le figurine, le sfide sul pavimento), e ne eravamo coscienti. Questo cantava la mia nuova, totale solitudine nel mattino radioso di Goa.

Per chi vuole conoscere, immaginare, sognare, con gli occhi innocenti della generazione in cammino.

(Questa nota è stata scritta per il libro di Maurizio Lipparini, Oriente ultima frontiera, in uscita a breve per Effigi Edizioni)
(Ulisse)

Dai nostri inviati Daniela Neri e Tommaso Sbriccoli in India, a Bhopal
Un giorno e 29 anni a Bhopal

www.lavoroculturale.org/un-giorno-e-29-anni-a-bhopal2/

foto di Daniela Neri
www.danielaneri.eu


video nell’articolo di Tommaso Sbriccoli

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Jimy Hendrix
la nostra stella cometa, natività, epifania..

http://www.youtube.com/watch?v=A98UVsmKGXs
e ancora live at Woodstock…

http://www.youtube.com/watch?v=m9Fia94-xGA
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Storie, leggende, musica… Marco Rovelli con Moni Ovadia : la meravigliosa vita di Jovica Jovic
http://www.youtube.com/watch?v=zwT8pgFIGbY







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Antonello Ricci da Viterbo…
Sotto Assedio


http://www.youtube.com/watch?v=8glwg9j1IOM

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Sempre da Viterbo riceviamo…

Andrea Capò Corsetti, Viterbo hardcore, 20 anni di punk nella Tuscia, Viterbo, Alter ego, 2013, pp. 127, € 9,90.
di Silvio Antonini
Con il tramonto della Prima repubblica, Viterbo diviene uno dei centri più di destra d’Italia: come successo altrove, l’elettorato democristiano e, in genere, di area governativa, si riversa in massa sulla nascente destra berlusconiana. Nel caso viterbese è Alleanza nazionale a far man bassa di consensi, tantoché il partito di Fini raggiunge in città le più alte percentuali nel Paese. Durante l’ultimo decennio del Secolo breve si porta a compimento quella terziarizzazione, iniziata con il fascismo, che ha trasformato la Città dei papi nella città dei militari e degli impiegati, con inevitabili conseguenze nel tessuto politico, soprattutto giovanile. Il sovversivismo degli scalpellini non è più nemmeno un ricordo, così come il progressismo espresso dall’artigianato nel Secondo dopoguerra. Le idee, diciamo, di sinistra, sono ormai perlopiù appannaggio di insegnati e di qualche libero professionista. È così che, soprattutto la parte sviluppatasi fuori le mura medievali, diventa territorio di caccia per l’estrema destra: la Viterbo della prima metà anni Novanta è invasa da giovani con il bomber e lo scudetto dell’Italia al braccio, secondo la moda dell’epoca. Giovani che, spesso, non restano con le mani in mano e che, non senza coperture e protezioni dalla politica che conta, passano alla violenza.
Sebbene si tratti d’un volume intitolato alla musica, è di politica che bisogna innanzitutto parlare, perché nello spaccato antropologico qui descritto, a far da collante è stata soprattutto quella militanza politica che ha visto nascere amicizie, confronti e rapporti. Nel deprimente scenario descritto matura una risposta che è alla base di questa storia. Ogni storia ha inevitabilmente delle date e dei luoghi. La prima data è quella dell’11 luglio 1993, quando l’occupazione d’un gazometro dismesso dà vita al Csoa Valle Faul, tuttora esistente, seppur delocalizzato. Altro momento è sicuramente rappresentato dall’ondata di occupazione e autogestione degli istituti medi superiori contro il Ministero Jervolino dell’autunno. Un movimento allora nominato Jurassic school, più vasto per dimensioni della Pantera, di cui però non è rimasta traccia nella memoria collettiva e dove avvenne l’esiziale sdoganamento dell’estrema destra nelle scuole. Premettendo che proprio in quegli anni usciva Destra – sinistra di Gaber, si può affermare che, tendenzialmente, i giovani di destra nel tempo libero frequentavano le discoteche, mentre quelli di sinistra si rivolgevano ai centri sociali, fucine della musica ancora detta alternativa (solo in anni recenti l‘estrema destra è riuscita a tenere in piedi dei propri circuiti di musica “non conforme”). Nei csoa imperversano le posse, gruppi voce e dj, con l’aggiunta magari di un basso o di una tastiera, che cantano su basi rap e ragamuffin d’Oltreoceano. Ben presto si verificano contaminazioni e fusioni, con la nascita del crossover, sull’esempio degli americani Rage against the machine. I Radio Avana, che mescolano rap, hard rock e punk, sono stati per Viterbo l’espressione più significativa.
Inizialmente la scena locale è un magma indistinto di suoni e generi: ci si ritrova tutti insieme in concerto, per un’iniziativa contro l’embargo a Cuba piuttosto che per un compleanno. Nei numeri il fenomeno ha come precedente solo il beat, ma l’ondata, inesorabilmente, rifluisce e ci si divide per coltivare i propri specifici generi. Nella metà anni Novanta, il punk revival di Green day e Offspring, aldilà degli aspetti modaioli, ha ridestato l’interesse per le varie sfaccettature del genere, compresa quella del nocciolo duro: l‘hardcore. Nell’ultimo lustro del Novecento prende così vita autonoma la Viterbo hardcore, un sodalizio tra punk e metallari che inizialmente ha come luogo d’incontro il muretto di largo Benedetto Croce, nel centro della città, al fianco dell’altra grande famiglia che stava assumendo sembianze proprie, quella dell’hip hop. Nella produzione c’è un salto qualitativo: i demo in musicassetta cedono il passo ai dischi (il digitale sarà una sofferta e subita necessità!). Il primo ad uscire è il sette pollici Più sbirri morti dei Tear me down (1996), su vinile rosso. Nella scena convivono diverse tendenze: per districarsi nella terminologia, il libro fornisce un glossario in appendice. Si annovera quella salutista – positivista, detta straight edge, di vita breve, e quella skinhead, destinata a durare a lungo, grazie principalmente alla band dei Razzapparte, con l’impegno a recuperare, nettandola da distorsioni e strumentalizzazioni, l’origine operaia, multirazziale e multiculturale dell’attitudine.
Dagli esordi, si sono formate diverse bands, tra scioglimenti, reunion e turnover; alcune durate il tempo di qualche prova, altre giunte ad oggi, con all’attivo diverse produzioni e concerti in mezzo mondo. Gruppi che hanno fatto scuola, percepiti ormai come classici. Un giro che si è ramificato in altri centri della provincia e della Tuscia romana. La scena, tenendo sempre alta la pregiudiziale antifascista, con il tempo ha guardato a quell’anarchismo radicale che tornava in auge dopo il riflusso del Movimento no global, e ha mantenuto come riferimento le realtà dei centri sociali e dell’autorganizzazione, appoggiandosi, nell’evenienza, ai club e ai circoli Arci.
La monografia, scritta in stile autobiografico, arriva sino, si può dire, a pochi istanti prima dell’andata alle stampe. L’autore, eterno ragazzo, batterista di origini metal dalle mille risorse e dai mille impegni, che di questa Viterbo hardcore è stato ed è un protagonista, chiude felicitandosi per l’affacciarsi di una generazione che sta permettendo il passaggio del testimone. Una nuova leva che ha ora come punto di riferimento la Cantina del gojo, sita a Vetralla.

Letti e riletti per voi

Pietro Bianconi   il Movimento Operaio a Piombino  la Bancarella editrice

Mai ristampa fu più tempestiva e preziosa. Curata da Paolo Favilli, corredata da 64 foto d’epoca, arriva nel momento più buio della storia della città-fabbrica. Ribelle e sovversiva da sempre, culla del movimento anarchico in maremma, insorta più volte fino a che il fascismo non si affermò nel ’22, mai doma, si levò in armi contro i nazisti nel settembre ’43. Spina nel fianco di ogni tentativo di pacificazione padronale almeno fino al 1993 ,anno  delle ultime grandi lotte contro i licenziamenti, dello smembramento della classe operaia, la sua riduzione a numeri insignificanti rispetto alla consistenza avuta per tutto il 900. E’ di questi mesi l’epilogo, la morte certificata della Piombino operaia e ribelle, le tristi parate funebri che ricevono anche i complimenti di questura e prefetto per la compostezza ( ! ) come in effetti è richiesta da un funerale e non da una lotta per la vita, persino la richiesta di unirsi alla provincia di Grosseto.( ! ) Non ipotizziamo cosa accadrà della Piombino di questo secolo, se si ridurrà ad una cittadina deindustrializzata, se riuscirà a spazzare via ciminiere, bonificarsi, reinventarsi. Qui vogliamo ricordare la ribelle, l’anarchica, cento anni di battaglie con le parole del compagno Pietro Bianconi di cui abbiamo già parlato nei numeri precedenti di Maremma Libertaria.
Scorrendo le pagine scopriamo  già nel 1901 la nascita del gruppo anarchico “ nè dio né padrone”. Nel 1904 gli operai mettono in fuga un corteo monarchico che festeggia la nascita di un erede al trono, poi danno vita ad uno sciopero generale spontaneo. Negli anni successivi gli anarcosindacalisti hanno la maggioranza in tutti gli stabilimenti piombinesi, nel 1910 guidano uno sciopero vittorioso agli altiforni della durata di 50 giorni ! Nel 1911 una serrata padronale costringe gli operai ad una dura resistenza, i loro figli partono in treno per varie località ospiti della solidarietà operaia, portando in giro questa canzone : siamo i figli dei serrati / dei serrati di Piombino / Max Bondi è un assassino / lo vorremo fucilar . La vertenza dopo molti mesi terminerà con scontri e decine di arresti che pure non piegheranno una classe operaia ridotta letteralmente alla fame. Nelle elezioni del 1919 oltre la metà dei votanti seguendo le indicazioni anarchiche si astiene. Terminiamo con la descrizione che Bianconi fa di una delle insurrezioni piombinesi del primo dopoguerra :

“La mattina del 26 giugno 1920 un gruppo di operai percorrevano le strade brandendo picconi e badili. Un gruppo di anarchici tra cui Angelo Rossi, Adriano Vanni, Secondo Filippelli attaccavano la caserma dei carabinieri posta in piazza Umberto. Alle 7,30 saltavano le prime saracinesche dei negozi di generi alimentari, si erigevano in varie parti le barricate e alle 8 l’insurrezione anarchica era in pieno sviluppo. Molti operai non sapevano maneggiare i fucili e Angelo Rossi insegnava a caricare e sparare mentre il Vanni porgeva i caricatori. Intanto i fratelli Pourger, gli svizzeri, si barricavano all’interno del loro negozio e da una finestra sparavano sulla folla. Dieci minuti dopo il negozio degli svizzeri era in preda alle fiamme. ( e per questo probabilmente si trasferirono a Massa Marittima ove i loro discendenti hanno avuto una bottega nella piazza del duomo sino alla fine degli anni 80 – ndr ) Carabinieri e guardie regie sparavano dalle finestre con moschetti e mitragliatrici, invocando l’intervento dell’esercito. I bersaglieri riuscivano a piazzare una mitragliatrice davanti al Politeama. Un gruppo di anarchici la prendeva d’assalto con bombe a mano, la mitragliatrice saltava, a terra rimanevano uccisi l’anarchico Quintilio Guerrini e feriti gravemente due commissari e quattro bersaglieri. Cadevano nelle ore successive anche gli anarchici Domenico Leoni e Gino Colombini. Mentre gli anarchici si battevano, la folla svaligiava i negozi e i socialisti arringavano gli operai esortandoli a non appoggiare una lotta di rapina e a prepararsi invece per la rivoluzione imminente. Intanto dalla vicina Campiglia si muoveva un gruppo di anarchici con un grosso quantitativo di dinamite, ma venivano dispersi dopo uno scontro con i carabinieri, intanto il Vanni si procurava un autocarro e piombava a Campiglia tenendo un comizio alla folla sostenendo che l’insurrezione di Piombino avrebbe avuto un risultato vittorioso anche soltanto dimostrando ai ladroni della terra e del commercio quanto fosse fragile il cerchio nero che si erano illusi di aver creato intorno alla città. Proprio negli stessi giorni era in corso una insurrezione anche ad Ancona e contemporaneamente si svolgeva il congresso della Federazione Anarchica a Bologna dove Riccardo Sacconi e Giulio Bacconi rappresentavano la Federazione Elbana Maremmana. Sacconi nell’accomiatarsi dai compagni per correre a Piombino, sosteneva che – questi moti locali dove venti o trenta eroici compagni riescono a battere centinaia di poliziotti e carabinieri, vogliono dimostrare alla classe operaia italiana che la rivoluzione è matura- Intanto a Piombino l’ USI dichiarava lo sciopero generale di due giorni che riusciva compatto, e sia pur a moto esaurito la presenza minacciosa degli operai sulla piazza riusciva a contenere la reazione della polizia e costringeva anche la locale sez. socialista a stilare un comunicato di solidarietà con le vittime del piombo regio. Piombino veniva occupata da 1500 guardie regie con autoblinde. Venivano arrestati Adriano Vanni , Angelo Rossi, Leonetto Baldi , Egidio Fossi.  Angelo Rossi morirà nel Mastio di Volterra nel 1923. Nel giugno ’22 si era svolto a Pisa il processo : Rossi, Vanni, Baldi e Fossi venivano condannati a 12 anni di reclusione e 3 di vigilanza. Dopo la sentenza il Rossi dirà – Grazie ! 12 anni passano presto, usciremo ancora giovani e ci rivedremo ! – invece il Vanni griderà – Viva l’anarchia ! Abbasso la giustizia borghese ! “

Livorno invece… Sovversivi e fascisti a Livorno 1918-22 di Tobia Abse  Quaderni della Labronica

Fa sempre bene rileggere questo libro dell’Abse del 1990 che non ci risulta ristampato e perciò rintracciabile solo nelle biblioteche toscane. Minuzioso, accurato, descrive il turbolento primo dopoguerra a Livorno, espugnata dai fascisti nell’agosto del ’22 solo a costo di una strage terribile; almeno sette morti e decine di feriti. Le particolarità della città-porto franco amministrata dal deputato socialista Modigliani (ebreo e fratello del più famoso pittore) risultano evidenti. Caso più unico che raro nel ’21 sorge persino tra gli studenti una Lega Studentesca Sovversiva ! Gli aderenti portavano distintivi con i simboli dei soviet e nastri rossi e neri, nel marzo dello stesso anno si scontravano con le prime squadre fasciste provocando ai neri camiciati un morto e vari feriti. Diversi scioperi generali reclamavano la liberazione di Malatesta e dei prigionieri politici. Persino i caporioni fascisti in vari documenti erano costretti ad ammettere che “ è una città difficilissima a guidarsi e reggersi… l’Ardenza è tristemente noto per l’anarchia dei suoi abitanti che sono fabbricatori di qualsiasi forma di armi, fu il paese di Pietro Gori e di Malatesta che molti anni vi hanno trascorso, e qui vi è tutt’ora il circolo più importante di tutta Italia delle donne socialiste” e ancora “ occorre risalire alle origini della popolazione di Livorno, formata in buona parte da elementi raccogliticci, evasi, profughi, levantini, ebrei, in numero questi rilevantissimo. Educazione e religione non hanno mai fatto breccia in questo popolo..il sesso femminile del basso ceto è quanto di peggiore si possa immaginare per l’odio sempre nutrito contro le classi più elevate, e contro tutto abbia parvenza di borghesia e di fascismo. Oggi ancora un alto numero di ammoniti, pregiudicati, disertori, condannati per reati quali furto e ribellione, onora Livorno. La quasi totalità di questa teppaglia figura iscritta nei partiti estremi, socialisti, comunisti, anarchici e repubblicani….altra piaga è la solidarietà più accanita anche nelle azioni più indegne.

A Livorno è preferibile essere un ladro o assassino che una spia…certi quartieri popolari sono ben forniti di armi ed esplosivi di tutti i tipi… “ E a distanza di novant’anni da queste relazioni, Livorno non ha perso il suo spirito ribelle e insofferente a qualsiasi potere. Le ultime mobilitazioni, occupazioni, scontri con la polizia ed il pd lo testimoniamo in maniera evidente,nonostante la disgregazione del tessuto sociale e dei vecchi punti di riferimento, Livorno è sempre un passo più avanti rispetto alle altre città toscane, e non solo.

Incontro della redazione di Maremma Libertaria con lo scrittore toscano (1) dell’anno Alberto Prunetti, il quale, per farsi perdonare la cosa , ci ha portato vino e coppie d’ova, tra un sottofondo di aurli al cinghiale, spari, canizze e bestemmie del capraio portate dal vento….  🙂

1) tutto vero, anche che Alberto ha vinto il prestigioso premio, l’unica cosa finta è la pistola…

schede sovversive
doc : Lucio,anarchico,rapinatore,falsario, ma soprattutto muratore…
http://www.youtube.com/watch?v=VOblUUr5LsA

Quando l’anarchia verrà-cento anni di movimento
video
http://www.youtube.com/watch?v=h6UZl_Zf3DQ

Intervista alla fotografa Marianna Leone !
http://www.fotografiafemminile.com/portfolio/marianna-leone.html
www.fotografiafemminile.com

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Marco Chiavistrelli
Canto per i profughi dispersi in mare
http://www.youtube.com/watch?v=I5p-pFDXbI4





Manolo Morlacchi,  “La fuga in avanti. La rivoluzione è un fiore che non muore, ed. Agenzia X-Cox 18, pp. 216, € 15,00.
Di questo libro si occupò a suo tempo Carmilla, era il 3 gennaio del 2008. Personalmente l’ho avuto tra le mani solamente una quindicina di giorni fa, e sento la necessità quasi fisiologica di condividere con i lettori le impressioni che questo libro mi ha trasmesso.
E’ opera di un uomo nato nel 1970, che rievoca la sua infanzia e la sua adolescenza, fortemente influenzate da una famiglia non esattamente coerente con il “decennio d’oro” che furono gli anni Ottanta. Tra i parenti nessun imprenditore rampante, nessuno che si sia arricchito coi Bot per acquistare la seconda casa, nessun avanzamento sociale, dal proletariato alla piccola borghesia, nessuna giacca di pelle o visone da ostentare con nonchalance, come l’avessero sempre avuta nell’armadio, nessun biglietto da 100 carte esibito nel portafoglio a suggerire “posso comprare tutto quello che voglio”. Manolo Morlacchi è figlio di brigatisti rossi. Coerenti, ostinatamente coerenti fino all’ultimo.

Pierino Morlacchi, il padre di Manolo, è nato nel 1958 ed è morto nel 1999. La madre, tedesca, Heidi Ruth Peush, è nata nel 1941 e deceduta nel 2005. Nella famiglia Morlacchi comunisti lo si diventava dalla prima poppata al seno. Già partigiani, milanesi del Giambellino, perseguitati dai fascisti, poi militanti del PCI, tanti fratelli e sorelle che facevano un gruppo unico, un saldo legame che non tradì mai, malgrado scelte diverse e spesso non condivise, quel fratello che aveva portato alle estreme conseguenze la sua ideologia, in perenne necessità di copertura, di affidamento dei figli, di denaro.
Enormi tavolate tra zii e cugini, anche più di venti persone, enormi mangiate quando ce n’era ed enormi bevute con quello che c’era, fratelli e sorelle in eterno pellegrinaggio tra le varie carceri italiane di tutta la penisola, clandestinità, arresti e ancora avvocati, processi, tribunali.
La specializzazione di Pierino furono le rapine, un asso del mestiere. Fu anche il protagonista di uno dei primi “sequestri” delle BR. Ho messo tra virgolette la parola sequestro perché oggi risulta quasi patetico chiamare così il prelievo di una persona fotografata da un commando e poi riaccompagnata nel luogo dove era stata prelevata, solo per dimostrare la potenza, la capacità logistica e militare dell’organizzazione.
Erano gli anni Settanta. Quasi impossibile oggi immaginare che in quegli anni le Brigate Rosse tenessero comizi pubblici al Giambellino, con Curcio che parlava e i compagni che presidiavano la piazza armati. Il consenso era altissimo tra la gente, Milano era popolo al Giambellino, lì “nuotavi come un pesce nell’acqua”, tra i tuoi.
La madre di Manolo, Heidi, nacque nella RDT, poi si trasferì nella Germania ovest, Londra, esperienze con i “figli dei fiori”, Milano nell’ambiente della Quarta Internazionale, e quindi l’incontro col Morlacchi. Da lì una vita in fuga, sempre in avanti però, come recita il titolo del libro. E’ forse la storia della madre, tutt’altro che comprimaria, ad avermi colpita maggiormente. Con i figli in giro per l’Italia, e poi anche per lei il carcere, la separazione, le lettere che scriveva loro, l’insegnamento dell’onestà, della dedizione alla causa, della coerenza personale come massima eredità da tramandare.
Lo stupore che suscita questo libro si può riassumere in due considerazioni: la prima è la singolare esperienza di un bambino che introietta dentro di sé tutte le contraddizioni di classe, di un’epoca che dalla Resistenza va al PCI e quindi alle BR; la seconda, che è conseguente alla prima, è la linearità di una scelta come la lotta armata.
Ci hanno abituati a pensare che il fenomeno lotta armata fosse un fatto marginale e circoscritto, secondario, addirittura salottiero: militanti figli di papà che si pentivano appena messo il piede in questura, intellettuali che facevano a gara a chi formulava i comunicati più illeggibili e indecifrabili (“deliranti”, li definiva regolarmente la stampa). Insomma, persone che più lontane non si può dal popolo, dal proletariato, e soprattutto dagli operai delle fabbriche.
Niente di più falso. Le prime BR erano parte integrante e decisiva di una linea politica che non poteva identificarsi con l’imborghesimento di un Partito Comunista che faceva della concertazione il suo cavallo di battaglia. E stiamo parlando di quello che succedeva nelle città. E nelle carceri, luogo fondamentale di reclutamento delle BR? Dobbiamo pensare che il proletariato carcerario degli anni Sessanta-Settanta era rappresentato da un ben caratterizzato gruppo sociale: semianalfabeta, per lo più parlava in dialetto meridionale. Furti, rapina e spaccio i delitti, quasi tutti legati a clan o gruppi familiari.
Al di fuori di quella realtà ci fu chi, come successe nelle carceri italiane, vedeva in quel sottoproletariato la risorsa per fare del mondo un luogo più giusto, umano e decente. Del tutto inaspettatamente chi si riteneva escluso dalla storia ne diventava il protagonista, con un linguaggio che non escludeva l’illegalità, quindi percorsi già noti, ma non più finalizazati all’arricchimento personale o del clan, bensì per portare a termine quel processo rivoluzionario verso uno stato socialista che il Partito Comunista aveva tradito.
Sono impressionanti, e perciò di eccezionale valore storiografico, le esperienze che Manolo racconta nel suo libro. Ci sono le lettere dal carcere, quelle scritte dai fratelli e dalle sorelle, quelle indirizzate ai figli, e poi la percezione palpabile di una Milano che scivola negli anni Ottanta e diventa irriconoscibile e anonima. L’arrivo di nuovi proletari che non si chiamano più tali, ma solo “i nuovi poveri”; i “marocchini”, non l’immigrazione del sud Italia ma quella del Marocco.
E i Morlacchi che di tutto questo se ne fregano. Ancora negli anni Novanta, fino al funerale di Pierino, uomini irriducibili, non della lotta armata ma della coerenza, che lo salutano con lo striscione: “Ciao Pierino. Fino alla vittoria. I compagni”.

E’ stata anche la mia frustrazione, per questo capisco così bene Pierino e Manolo. Mi trovavo a parlare con i compagni del PCI e non li capivo. Ero molto giovane allora, e pensavo che un militante del PCI facesse della sua vita un modello ideologico-comportamentale intransigente e incorruttibile, e inevitabilmente mi trovavo a subire conversazioni che riguardavano investimenti finanziari, ideali che non andavano al di là dell’acquisto di un appartamentino al mare, la partecipazione alla vita di partito che si limitava alla mangiata di polenta e salciccia alla festa dell’Unità.
Quelli erano i compagni? E il mio pensiero andava — sorridevo mentre lo cullavo nella mente – a una viaggio in treno di qualche tempo prima, in un vagone di seconda classe con alcuni coetanei, verso il sud. Di fronte a me un ragazzo teso, guardingo, un poco spaventato ma determinato, con folti baffi e capelli appena un po’ lunghi, che al tentativo di coinvolgerlo in una nostra conversazione rispondeva impacciato, in un italiano appena comprensibile.
Teneva stranamente una mano sull’avambraccio della mano sinistra, come a nascondere una ferita o una cicatrice sgradevole alla vista. Finalmente si addormentò, e pian piano la mano gli scivolo sul sedile. Ciò che teneva gelosamente nascosto era un grande tatuaggio con la stella a cinque punte e la scritta BR in evidenza. Roba fatta artigianalmente, in carcere. Quel giovane, decisi, era il mio referente. La persona per la quale avrei continuato a lottare.
(Daniela Bandini )

27 Gennaio

Sinceramente non è che mi entusiasmino le giornate, le ricorrenze istituzionalizzate, spesso svuotate del loro significato originario, trasformate in cene e cotillion come è stato, purtroppo , per l’8 marzo. Anche perchè tanti, troppi, si lavano la coscienza con la presenza, un discorso, una foto su fb. Come se fosse possibile essere consapevoli, giusti, persino antifascisti, un giorno all’anno……ma due parole su quella che è conosciuta come la giornata della memoria, il 27 gennaio, l’arrivo dei soldati dell’armata rossa a Auschwitz vorrei dirle. Sono quelle di mia madre, abitante nel ’44 nella montagnola senese, partecipe, con la piccola comunità di Scorgiano, all’accoglienza di una famiglia di ebrei fiorentini, nascosti e salvati da tutti. Il capofamiglia era un sarto, dopo la sua salvezza ringraziò cucendo una bandiera rossa con la falce e martello in oro per la sez del PCI appena riaperta. Quando domandai a mia madre se non avessero avuto paura in quei lunghi mesi ( si rischiava la fucilazione mentre, per chi avesse fatto la spia, si promettevano forti ricompense in denaro) rispose stupita ” non potevamo che farlo, che c’è di strano ? “. E doveva essere così per tutti, perchè non trovate traccia di questo episodio nei libri di storia locale. Mia madre, che mi aveva raccontato tanti episodi della guerra, questo me lo raccontò per caso, senza dargli molta importanza. Ecco, adesso ne faccio Memoria, anche se non dovrebbe esserci niente di strano. (Stefano Erasmo)


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L’anarchia spiegata a mia figlia : il nuovo libro di Pippo Guerrieri, BFS edizioni qui in free download e streaming
https://archive.org/details/LanarchiaSpiegataAMiaFiglia

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Io non credo nei partiti. Ma non perché siano stati occupati da persone disoneste. Io non credo nei partiti perché non credo nella delega. […] Non sono un comunista. Io sono anarchico. Non mi interessa che il popolo vigili sull’amministrazione pubblica. Io non credo che il popolo debba essere amministrato da qualcuno. Io voglio il superamento di questa democrazia, non che venga amministrata decentemente. Questo era il dibattito negli anni ’60 rispetto ai manicomi. Qualcuno voleva umanizzarli, qualcun altro cancellarli. Si umanizza un’istituzione disumana solo cancellandola. ”
( Ascanio Celestini )
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le foto di questo numero  sono in gran parte di Stefano Pacini , Marco Dinoi, Daniela Neri
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Maremma Libertaria Esce quando può e se e come gli pare. Non costa niente, non consuma carta e non inquina, se non le vostre menti. Vive nei nostri pensieri, perchè le idee e le rivoluzioni non si fanno arrestare, si diffonde nell’aere se lo inoltrate a raggera. Cerca di cestinare le cartoline stucchevoli di una terra di butteri e spiagge da bandiere blu, che la Terra è nostra e la dobbiamo difendere! Cerca di rompere la cappa d’ipocrisia e dare voce a chi non l’ha, rinfrescando anche la memoria storica, che senza non si va da nessuna parte. Più o meno questo è il Numero 14 del 27 gennaio 2014. Maremma Libertaria può essere accresciuta in corso d’opera ed inoltro da tutti noi, a piacimento, fermo restando l’antagonismo , l’antifascismo e la non censura dei suoi contenuti.

In Redazione, tra i cinghiali nei boschi dell’alta maremma, Erasmo da Mucini, Ulisse dalle Rocche, il Fantasma della miniera, il subcomandante capraio, Alberto da Scarlino, Alessandro da Grosseto, Antonello dalla Tuscia, Luciana da Pomonte, Complici vari , Ribelli di passaggio, maremmani emigrati a Barcelona.
No copyright, No dinero, ma nel caso idee, scritti, foto, solidarietà e un bicchiere di rosso.
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My way Sid Vicious !
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Nostra patria il mondo intero, nostra legge la Libertà, ed un pensiero Ribelle in cuor ci sta (Pietro Gori)
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Potranno tagliare tutti i fiori, ma non riusciranno a fermare la Primavera (Pablo Neruda)
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(Victor Jara canta Neruda)


Sempre, comunque e dovunque : Libertà per tutti i compagni arrestati !– Fori i compagni dalle galere !-Libertad para todos los presos ! – liberdade para companheiros presos! -comrades preso askatasuna!- liberté pour les camarades emprisonnés!-freedom for imprisoned comrades !- Freiheit für inhaftierte Genossen!- ελευθερία για φυλακισμένους συντρόφους ! – الحرية لرفاق