Maremma Libertaria n 5


Sommario: Speciale Bianciardi e Pinelli – Barcelona al tempo della crisi – Volontari maremmani nella guerra civile spagnola -Viva il liberismo – Alessandro Angeli – Storia del Collettivo Operaio di Colle Val D’Elsa- Elvezio Cerboni

http://youtu.be/kuth3C0SLGU Video Bianciardi a Milano
http://youtu.be/LZquXRcpwGk Video film Bianciardi !
A quarant’anni dalla morte di Bianciardi è stato ripubblicato con una nuova prefazione il bellissimo libro di Pino Corrias “Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano” (Feltrinelli)
…Girava per le miniere anche quando veniva a fare comizi elettorali con il Cassola nelle vicinanze dei pozzi,nelle stesse piazze dove in quei giorni si confrontavano personaggi come La Pira e Paietta.
Una voce solitaria, ha amici comunisti, la gente commentava :” ma come ? il figlio della maestra. Un laureato!”
“E così ho scelto di stare dalla parte dei badilanti e dei minatori della mia terra,

quelli che lavorano nell’acqua gelida con le gambe succhiate dalle sanguisughe, quelli che cento, duecento metri sotto terra, consumano giorno a giorno i polmoni respirando polvere di silicio”
Detesta le tessere. E’ anarchico individualista.”

Quando Bianciardi morì nel ’71 ne coltivarono il ricordo gli amici, gli artisti di strada, i pittori e i fotografi con cui aveva condiviso il pane e il vino tra Grosseto e Brera, tra le quattro strade e il Giamaica con Jannacci. Pochi continuarono a leggerne i libri. Poi arrivò Pino Corrias a dare alle stampe nel 1993 una biografia che viene oggi ripubblicata (Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano, Feltrinelli). Poi arrivarono Massimo Coppola e Alberto Piccinini autori di un film straordinario (Bianciardi!) e curatori assieme a Luciana Bianciardi, la figlia, dell’intera opera (il cofanetto con il film e i due “antimeridiani” è stato ripubblicato ora in un’edizione speciale: Luciano Bianciardi, Opera completa, ISBN, 2 voll. + DVD).

E così oggi, finalmente, Bianciardi è fra i principali scrittori del Novecento italiano e il suo capolavoro, La vita agra, fra le opere decisive. Del resto, in quel libro c’è tutto il suo autore e il suo dolore, c’è tutta l’Italia di quegli anni e tutto il dolore che provoca, in qualsiasi tempo, la perdita delle radici e il rimpianto dell’Eden di un mondo fatto di relazioni chiare e parole dirette. Quel mondo Bianciardi lo abbandonò presto. Era la Maremma che girava assieme all’amico Cassola su un bibliobus di sua invenzione per portare i libri nelle campagne. Era la casa natia, le osterie, la gente che si conosceva per nome, la moglie e due figli. Lasciò tutto per rincorrere una “solenne incazzatura”. Quell’incazzatura raccontata ne La vita agra: i 43 minatori morti nell’esplosione della miniera di Ribolla. Era il 1954. Il protagonista del romanzo, alter ego dello scrittore, prese un treno per Milano dove, da bravo anarchico, progettava di far esplodere i palazzoni dei padroni. Ma l’utopia si sarebbe spenta in fretta. Quel che restava, oltre al freddo, i cieli grigi e l’indifferenza della metropoli, era il cosiddetto miracolo economico. “I miracoli veri” scrisse “sono quando si moltiplicano pani e pesci e pile di vino, e la gente mangia gratis tutta insieme, e beve. I miracoli veri sono sempre stati questi. E invece ora sembra che tutti ci credano a quest’altro miracolo balordo. (…) Faranno insorgere bisogni mai sentiti prima. Chi non ha l’automobile l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici (…). A tutti. Purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera. Io mi oppongo”. Il confronto della vita milanese rispetto ai paesi ed agli avvenimenti della sue colline ricorre come un’ossessione nei sui scritti:
“Mi ricordo che il vecchio Lenzerini, al suo bottegone di Scarlino Scalo, teneva tutta questa roba e altra ancora anche i cappelli teneva, i vasi da notte, il baccalà a mollo e i lumi a carburo. Ti preparava anche un cantuccio di pane col salame, il Lenzerini…. Davanti al bottegone c’è uno spiazzo dove razzolano le galline, e niente passaggio zebrato.”
E in quell’ “esilio milanese” di delusione scattò una grande nostalgia per i suoi luoghi:
“Il fatto è che, passando gli anni, i ricordi anziché allontanarsi si avvicinano”
“Continuo a guardare verso il gabellino, e mi viene alla mente con nostalgia, quell’altro Gabellino, messo giù a valle a mezza strada fra Prata e Boccheggiano, dove si doveva cambiare il postale, scendere da quello di Roccastrada, salire sull’altro per Massa Marittima..”.
“Non che voglia fare l’esule. Mi sento in colpa, questa è la verità, con tutti voi. Non dovevo scappare. a volte mi sembra di aver tradito la mia città, voi amici, le mie origini, venendomene quassù.”
” Chissà se riuscirò a trovare la strada di Itaca, un giorno?.”

Forse fu qui che cominciò la crisi finale? Difendersi dalla povertà e dall’anonimato è dura. Dai soldi e dal successo può diventare durissima. Bianciardi tentò con tutte le sue forze. Indro Montanelli gli propose una collaborazione al Corriere. Lui rifiutò. Preferì scrivere per Il Guerin Sportivo e commentò in una lettera: “Anziché mandarmi via a calci in culo, mi invitano a casa loro”. Abbandonò Milano per Sant’Anna di Rapallo dove immaginò un ritorno a Grosseto. Ma ogni Eden non può che restare solo un sogno. Quella fu l’ultima definitiva delusione. Corrias non ha mai conosciuto Bianciardi ma si è informato scrupolosamente dai familiari, dalla compagna Maria Jatosti, dagli amici. Ne è uscito fuori un libro bellissimo. Nessun libro di storia racconta questa svolta fondamentale con la stessa chiarezza e evidenza come fa Corrias in poche pagine, spesso citando Giorgio Bocca, che retrospettivamente dice: “Chi non ha visto la Milano di quegli anni non può capire la fuga a occhi chiusi verso il benessere e le radici della crisi economica e morale di oggi. Fingevamo di essere moderni, mentre avevamo alle spalle dei serbatoi immensi di manodopera sottopagata e le campagne abbandonate”.Tutto sommato questo di Corrias è il miglior libro di Luciano Bianciardi, se non altro perché inquadra mirabilmente la sua storia nella nostra di noi sopravvissuti. È una storia tragica, forse però meno di quella di Malcolm X, che, come ci ha raccontato lo stesso Corrias sulla “Stampa”, a quasi trent’anni dal suo assassinio è diventato grazie al film su di lui un oggetto di culto riprodotto in milioni di poster, di distintivi e di fibbie a cura dei suoi assassini. Per sua fortuna, la provincia maremmana e italiana ha risparmiato a Bianciardi un destino simile.
(Matteo Nucci e Claudio Cases)
Incazzati neri
Martedì 13/12 a Firenze. Due uomini vengono uccisi, altri tre feriti gravemente. Sono tutti senegalesi. Sono venditori ambulanti. Sono poveri e stranieri. Per questo sono finiti nel mirino di un fanatico di destra, razzista come tutti i fascisti. Politici e media hanno inutilmente cercato di presentare l’assassino come un pazzo che ha compiuto un gesto deplorevole e doloroso, da biasimare stringendosi assieme il tempo di un funerale. Il vanitoso e inconsistente Matteo Renzi ha proclamato il lutto cittadino, offrendosi di rimpatriare le salme: allontanare i cadaveri in fretta, per meglio dimenticarli e poter tornare alla “normalità”. In una città ormai diventata uno shopping-museum aperto a tutte le banconote, senza distinzioni di valuta, bastano dieci minuti di serrata per esprimere il cordoglio bottegaio.Gli spari di Firenze seguono a poche ore di distanza il rogo di Torino, dove alcuni cittadini perbene hanno incendiato un campo rom, abitato da altri poveri, da altri stranieri. No, non si tratta di una coincidenza. Sono le conseguenze del veleno che da tempo ammorba l’aria che respiriamo.Non era l’ex-ministro degli Interni a voler essere «molto cattivo» con gli immigrati clandestini? Al mercato di S. Lorenzo, oggi imbrattato di sangue, non spiccano diversi cartelli che mettono in guardia dagli ambulanti abusivi, quelli che si limitano a raccogliere qualche briciola di sopravvivenza? Non è iniziata proprio nella civile Firenze antifascista la crociata istituzionale contro lavavetri e mendicanti, condotta dal padrino dell’odierno sindaco-velina? E quanti stranieri poveri annegano nel tentativo di arrivare in Italia, o vi giungono solo per essere umiliati, sfruttati, rinchiusi nei Cie (istituiti dalla sinistra e riempiti dalla destra)? È la politica dei governi, di destra come di sinistra, sono le campagne securitarie dei giornalisti, è il consenso delle brave e timorate persone ad aver armato la mano del camerata di Casa Pound ,manovalanza aizzata contro lo straniero venuto a turbare i nostri equilibri, indicato come responsabile del brusco risveglio che ci ha strappato al nostro imbambolamento quotidiano. Abbiamo scoperto di vivere una morte lenta, inseguendo una carriera che precede la pensione? Bruciamo gli zingari! Ci siamo accorti d’essere rimasti con le tasche vuote, privati della possibilità di consumare merci scadenti? Spariamo sui neri! In tempi di burrasca, come quelli che stiamo attraversando, bisogna fare di tutto per evitare il naufragio dei propri “privilegi”.E se a destra si incita alla guerra fra poveri, a sinistra si invita a rispettare la Costituzione democratica. Sono le due sole carte in mano allo Stato per scongiurare la guerra sociale.
No, non è né il sordo rancore né la servile obbedienza che ci faranno uscire dalla miseria materiale ed emozionale in cui soffochiamo, ma solo una rivolta senza compromessi che ponga fine a questo mondo inquinato dal rispetto per l’autorità e dal culto per il denaro.
Nel 1886 Jay Gould, il padrone delle ferrovie statunitensi, affrontò un grande sciopero di ferrovieri che minacciava il suo impero licenziando tutti gli scioperanti. In quell’occasione disse: «Posso assumere metà dei lavoratori perché uccidano l’altra metà». È quello che è sempre accaduto nel corso della storia, e che accade ancora oggi.
Continueremo a farci comprare dai nostri padroni e a scannarci fra noi, oppure…?
www.finimondo.org
 
Viva il Liberismo !(fantascienza ?!)
Oggi, nell’era della piena realizzazione del Liberismo, si fatica a credere che ci sia stato un tempo nel quale il mercato del lavoro era prigioniero di leggi insensate e limitazioni avvilenti. Eppure, fino ai primi anni del ventunesimo secolo, milioni di persone anziane venivano ancora cacciate dal loro posto di lavoro soltanto a causa della loro età anagrafica, e costrette ad anni e a volte decenni di umiliante improduttività. Una pratica detta allora ”pensionamento”, ma che oggi possiamo chiamare col nome che le spetta: discriminazione. Con un’intollerabile ingerenza statale nelle libertà personali, agli anziani veniva negato il diritto di morire lavorando. La soddisfazione umana e professionale di dare la vita per la ditta era possibile solo grazie ai coraggiosi imprenditori che ignoravano le retrograde norme di sicurezza.
Gli anziani non erano però gli unici a subire crudeli emarginazioni in base all’età. Il protervo dirigismo statale cercava di impedire l’accesso al mercato del lavoro ai minorenni, preferendo sprecarne le risorse produttive in futili esercizi d’apprendimento di pratiche e nozioni obsolete, che a volte si protraevano anche oltre la maggiore età, producendo generazioni di disadattati, con gravi danni all’economia, e all’ordine pubblico. Per quanto oggi possa sembrare delirante, esistevano infatti istituti di formazione, detti ”università”, dove si discutevano e si insegnavano discipline e competenze del tutto estranee alle richieste del mercato, e addirittura contrarie alle esigenze degli imprenditori.
Questa pratica dissennata rendeva inevitabilmente ogni ”università” un covo di terroristi.
Anche i lavoratori che rientravano negli assurdi limiti d’età allora in vigore subivano la loro pesante quota di restrizioni, a cominciare dalle donne, alle quali non era consentito partorire sul posto di lavoro, restando produttive anche durante la riproduzione, mentre il bigotto moralismo dell’epoca arrivava persino a disapprovare la prostituzione a fini di carriera.
Le proibizioni più odiose però non venivano inflitte ai lavoratori dallo Stato – che comunque le avallava – ma da una prepotente lobby di tecnocrati detta ”sindacato”, che pretendeva di sottrarre al singolo il diritto di negoziare da solo le condizioni dei suoi rapporti di lavoro, e imponeva la ratifica di rigidi contratti nazionali diretti a privarlo della libertà di lavorare ininterrottamente senza limiti di tempo, di rinunciare del tutto al salario, e di vendere o affittare parti del suo corpo a seconda delle richieste del mercato, e delle esigenze degli imprenditori.
Il principale strumento di coercizione adoperato dal ”sindacato” sulle sue vittime era lo ”sciopero”, ovvero l’obbligo ad astenersi dal lavoro, a volte addirittura per un’intera giornata, e spesso a partecipare a cortei umilianti e pericolosi, che si rivelavano inevitabilmente un covo di terroristi.
L’ansia di tornare produttivi spingeva i lavoratori a cedere alle richieste del ”sindacato”, e soltanto il coraggio e la resistenza di imprenditori nobili come il
Cavaliere del Lavoro Marchionne, al quale oggi qui inauguriamo il monumento, era in grado di restituire loro la libertà, e la speranza nel futuro.
Quegli anni bui sono ormai un ricordo del passato, però, affinché niente del genere si ripeta, occorre uno sforzo comune.
Il 2029 è stato un anno difficile per l’economia mondiale, la solidità della nostra moneta comune, il Dolleuro, è in pericolo.
Saranno necessari nuovi sacrifici fiscali, anche se non disumani.
E naturalmente un’ulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro.

(Alessandra Daniele)
 
Riceviamo e pubblichiamo dall’emigrazione maremmana in Barcelona

Barcelona al tempo della crisi

 

Welcome anywhere you came from/

You’ll lose your life or find a home here.

 Saranno passati trent’anni da quando Manu Chao scrisse una canzone che diceva che a Barcellona c’erano più indiani che in Arizona.Indios de Barcelona” parlava del “Barrio Chino” e di Sant Pau, zone a forte immigrazione da sempre, un ammasso di vie e viuzze a ridosso delle vecchie darsene di Drassanes e che oggi fanno parte del più ampio barrio del Raval, dove il 60% dei residenti è straniero.Da sempre quest’angolo di città ne ha viste letteralmente di tutti i colori, vuoi per quelli dei suoi abitanti o vuoi per quelli dei suoi governanti: inverni grigio dittatura e primavere rosso sangue.

La crisi si sente e si vede molto bene se si sa guardare al di là del carrozzone plastificato imbandito di turisti che sono le ramblas in ogni epoca dell’anno.In 3 anni i cartelli di affittasi e vendesi sono spuntati come funghi un po’ ovunque e anche i “compro oro” hanno serrato le fila e spadroneggiano in tutta la città.Al lato di questi spazi vuoti e svuotati di significato all’interno delle viscere della città, nuovi mostri preistorici di cemento e vetro si alzano giorno dopo giorno per render lode al progresso e far udire il loro muto ruggito accanto ai mostri sacri creati da Gaudì in altri secoli.La nuova Filmoteca cittadina del Raval sembra un ernorme scatolone di cemento armato con tante finestre-occhi multicolori; ancora non è ultimata, fondi permettendo dovrebbe essere inaugurata nel 2012.Fa parte dell’ennesimo tentativo del comune di “riqualificare” il quartiere: il nuovo spazio per i cinefili catalani si alza circondato su tre lati da una delle piazze della prostituzione barcellonese più tradizionale.Il Bar Marseille si alza dirimpetto alla non ultimata Filmoteca, sarà una questione di 15 metri non di più; il vecchio e fascinoso bar dove Hemingway passava il tempo a bere assenzio e dove ancora l’assenzio scorre a fiumi nelle gole dei turisti lonely planet rappresenta emblematicamente quella parte della città che vive o malvive a secondo dei traffici leciti o meno ai quali si dedica per campare.I baristi faticano per star dietro alla voglia di alcol e euforia dei loro clienti quando la serata è buona e tirano a campare quando le cose vanno più a rilento; i ladruncoli cercano sempre di beccare qualche sprovveduto all’incrocio di Sant Pau e si muovono sempre, nervosi e attenti all’arrivo di eventuali sbirri.Le prostitute mettono in scena il loro triste show di carne in scatola disponibile per il primo che passa e paga.
Il tutto coabita con un turbinio di kebabbari, parrucchieri per uomo a 5 euro, alimentari etnici, bar e negozi strapieni di telefonini che si affacciano da ogni parte e un flusso costante e incessabile di turisti che dalla rambla inforcano una delle strade laterali opposte al Gotico.
L’equilibrio di questa città, in bilico tra una crescita costante nel turismo e una recessione spietata che sta travolgendo il sociale è ben esplicata dal confronto forzato di queste due realtà che vivono insieme ma a velocità diverse.Da una parte si è deciso di vincere la sfida della crisi investendo tutto sul turismo e modernizzando sempre di più le offerte dell’industria del divertimentificio: Barcelona è all’avanguardia, in Europa e nel Mondo, in tutto quello che la ricettività turistica e derivati suppongono.Questo processo irreversibile di trasformazione da città post-industriale a città-vetrina è cominciato con le Olimpiadi del ’92 e prosegue a vele più o meno gonfie da allora.Ma questa accellerazione turistica non ha fatto i conti con i tessuti sociali tradizionali della città, stravolgendo i quartieri del centro e creando conflitti quotidiani e a cui nessuno, seriamente, vuol mettere mano.I residenti contro i turisti dei residence non autorizzati, le prostitute e gli spacciatori; i commercianti extracomunitari contro i ladruncoli di quartiere; gli okupas contro i palazzi sfitti e il problema della casa; la polizia contro tutti e gli spazzini con gli idranti contro gli ubriachi del sabato sera.Certo, la Catalunya non è l’Italia e il deserto italiano degli aiuti sociali non è nemmeno lontanamente paragonabile alla situazione catalana ma tutto punta verso un ribasso degli aiuti statali e regionali ai poveri, ai giovani e ai disoccupati.
Nelle ultime settimane si sono moltiplicate le occupazioni di stabili sfitti e una “cacerolada” di indignados ha salutato in plaza Catalunya i risultati elettorali che hanno visto più la disfatta dei socialisti che la vittoria dei popolari.Se i poveri sono sempre più poveri e si trovano a contatto sempre più stretto con chi invece ostenta e spende, le conseguenze possono essere esplosive.Staremo a vedere, ma “ Barcelona Barrilonia” promette come sempre battaglia.
(Emiliano P.)
 
Riceviamo dal regista libertario massetano Umberto Lenzi, residente in Barcelona, e appassionato custode di un grande archivio di documenti della guerra civile, questo contributo sul tema
Volontari maremmani nella guerra civile spagnola 1936-1939
La classe operaia della Provincia di Grosseto agli inizi degli anni ’30 appariva in grave crisi, poiché le leggi fasciste, privilegiando i proprietari terrieri nelle campagne e la Società Montecatini nella gestione delle miniere metallifere,peggiorarono deliberatamente il livello di vita dei lavoratori, deprimendo i salari e il potere d’acquisto.
Nel 1930 la Montecatini decise di introdurre il sistema Bedaux nelle miniere della Maremma. Si trattava di un metodo mascherato di stretta sui salari:ogni operazione lavorativa veniva analizzata e cronometrata al fine di stabilire un sistema di punteggio basato sulla rilevazione dei tempi di una giornata lavorativa media , fissata dalla Direzione di ciascuna miniera. Il famigerato sistema Bedaux dette luogo a sollevazioni e scioperi promossi dagli ormai clandestini sindacati minatori, repressi duramente dalle autorità di polizia e dalla milizia fascista. La gran parte degli operai, sia della industria estrattiva, che delle campagne e del terziario, erano in
maggioranza avversi al regime fascista. Sin dall’inizio del secolo, i gruppi politici maremmani erano costituiti in massima parte dai socialisti, dagli anarchici e dai repubblicani mazziniani. Questo fece si che dal sorgere del movimento fascista nel 1920 si ebbero scontri continui e spesso sanguinosi, in massima parte tra i minatori di Niccioleta, Ribolla, Gavorrano,Boccheggiano e le squadracce fasciste armate e sostenute dagli industriali, dagli agrari, con l’appoggio scoperto delle autorità governative. La conseguenza fu una serie di intimidazioni e di provvedimenti punitivi per chi non si sottometteva al fascio man mano che il regime si affermava.

Nella metà degli anni ’20, come conseguenza ebbero inizio le emigrazioni clandestine di molti lavoratori maremmani in Francia e Belgio, stanchi delle persecuzioni delle autorità fasciste e del crescente livello di indigenza sociale. Si trattava nella maggior parte dei casi di irriducibili elementi anarchici, dei primi nuclei comunisti e di altri soggetti politicizzati a sinistra, repubblicani e socialisti.

La vita di questi emigranti antiregime, o fuoriusciti ,come venivano schedati dalle Prefetture, fu grama e spesso resa particolarmente difficile dalle infiltrazioni della polizia politica fascista, la famigerata OVRA, che distaccava agenti provocatori in Francia , in Belgio e in Svizzera ove più attivi erano i gruppi antifascisti italiani. Vi furono continue espulsioni di intellettuali considerati soggetti pericolosi, la più famosa fu quella del professore anarchico Camillo Berneri, che cacciato di forza da Parigi, fu soggetto a una serie interminabile di peregrinazioni illegali in vari paesi.

 

Ben presto si formarono in Francia concentrazioni antifasciste che dettero inizio a un’intensa attività di reclutamento tra i vari gruppi di emigrati , al fine di eliminare fisicamente gli agenti provocatori venuti dall’Italia e di effettuare azioni dimostrative in alcune località della penisola. Nel Luglio del 1936, in conseguenza del golpe militare scatenato dai generali Franco e Mola contro la Repubblica, dove il Fronte Popolare delle sinistre aveva vinto le elezioni, ebbe inizio in Spagna una cruenta guerra civile , che durò tre lunghi anni e terminò dopo eroica resistenza con la sconfitta delle forze repubblicane.

I primi ad accorrere volontari in difesa della Repubblica democratica furono alcuni emigrati maremmani, tra cui si distinse, nei combattimenti di Irùn un mese dopo lo scoppio della guerra, l’ex straccivendolo anarchico di Ravi Lelio Iacomelli, che trovandosi in esilio a Bilbao, fu uno dei primi italiani antifascisti ad arruolarsi in una milizia popolare. Contemporaneamente, si arruolò in un contingente catalano un altro anarchico, Quisnello Nozzoli, nato a Lastra a Signa, ma residente a Massa Marittima per un periodo della sua vita di attivista anarchico, prima di emigrare a Barcellona.

Non è nostra intenzione narrare dettagliatamente le vicissitudini dei diciannove volontari antifascisti della provincia di Grosseto che si batterono in Spagna nelle Milizie e successivamente nella Brigata Garibaldi, forse la più popolare della sei Brigate Internazionali, il cui comando era stato assunto dal grossetano Randolfo Pacciardi .

Per una pubblicazione esaustiva in tal senso, rimandiamo al libro di Fausto Bucci, Rodolfo Bugiani, Simonetta Carolini, Andrea Tozzi e altri, edito da LA GINESTRA – VIGA a Follonica, nell’anno 2000.

Ci limiteremo a brevi tratti di ciascuno dei 19 volontari.

di LELIO IACOMELLI, di Ravi, abbiamo detto,

di QUISNELLO NOZZOLI, pure. Gli altri diciassette volontari della nostra provincia furono:

VITTORIO ALUNNO, ventiquattrenne badilante comunista di Grosseto, si arruolò nella Brigata Garibaldi e cadde nella battaglia di Campillo, in Estremadura, il 17 Febbraio 1938. Era la prima azione di combattimento cui prendeva parte, essendo giunto in Spagna poche settimane prima con tre conterranei.

LUIGI AMADEI, anch’egli grossetano, di professione bracciante agricolo, raggiunse fortunosamente la Spagna e arruolato nella Brigata Garibaldi operò su vari fronti e si distinse, nell’estate del 1938, nella battaglia dell’Ebro. Alla fine del conflitto, riparò in Francia. Tornato a Grosseto dopo la fine della seconda guerra mondiale, sposò una ragazza del posto e si trasferì a Casteldelpiano.

PIETRO AURELI, libertario nativo di Montelupo Fiorentino ,amico dell’anarchico massetano ITALO GIAGNONI, si trasferì a Talamone guadagnandosi da vivere come pescatore. Passato in Spagna alla fine del 1937 con i compagni Vittorio Alunno, Luigi Amadei e Angiolo Rossi, si arruolò nella Brigata Garibaldi, combattendo in Estremadura e Aragona. Rientrato in Francia, dopo molte peripezie venne arrestato dalla polizia hitleriana e deportato in Germania dove rimase prigioniero sino al 1945.

RAFFAELLO BELLUCCI, nato a Orbetello nel 1904, risiedeva a Grosseto ed era politicamente vicino al Partito Repubblicano. Nell’estate del 1937, fu segnalato dall’ OVRA in Spagna ,come membro di una formazione comunista. Rientrato nel dopoguerra a Grosseto, divenne segretario della Federazione Comunista e successivamente, nel 1948, eletto deputato.

ETRUSCO BENCI, giovane grossetano di famiglia repubblicana, emigrò a Nizza e aderì alla fine degli anni ’20 a un gruppo massimalista. Nel ‘36 raggiunse la Spagna e si arruolò in una colonna del POUM (Partido Obrero de Unificaciòn Marxista) formazione trotskysta. Benci partecipò a vari scontri al fronte, venne ferito, in seguito tornò a Barcellona e si trovò coinvolto negli scontri del Maggio 1937 tra anarchici della CNT e membri del POUM contro i comunisti. In quella lotta fratricida durata alcuni giorni, fu assassinato Camillo Berneri da sicari stalinisti. Alla fine della guerra civile Etrusco Benci si rifugiò a Bruxelles, prendendo parte alla Resistenza. Scoperto e arrestato dai tedeschi, venne fucilato il 12 Giugno 1943 assieme a duecento patrioti belgi. Venne insignito di medaglia d’oro.

ALFREDO BOSCHI nato a Massa Marittima nel 1889. Lavorò giovanissimo ai solfuri minerari, aderì al Partito Socialista e si trasferì a Follonica per lavorare nelle locali fonderie. Dopo che il fratello Natale, anarchico, viene aggredito a Massa Marittima, Alfredo riparò a Torino e lavorò nelle fonderie Fiat. Secondo relazioni scritte della Polizia Politica, nel 1936 Boschi fu segnalato in Spagna come membro della colonna Rosselli. In seguito venne inviato a Marsiglia per reclutare volontari. Passato nelle file comuniste, il massetano rimase definitivamente in Francia nel 1938 e tornò sono una volta in Italia nel 1946.

ANTONIO CALAMASSI nacque a Massa Marittima il 27 Giugno 1908. Lavorò come operaio prima in Maremma, in seguito a Torino, dove prese a frequentare gruppi di anarchici piemontesi e toscani. Il 9 Settembre 1936, per sfuggire alle retate poliziesche che si erano abbattute sui gruppi libertari, passò in Francia e di qui raggiunse la Spagna. Arruolato nella Colonna Ascaso, combattè in Aragona fino al 10 Febbraio 1937, quando deluso dalla militarizzazione forzata delle Milizie, tornò in Francia. Rimpatriato a forza in Italia nel 1940, venne perseguitato come sovversivo e nel 1941 fece definitivamente ritorno a Torino.

LUIGIA CIVININI. Grossetana di buona famiglia si diplomò alla Scuole Normali cittadine dove conseguì il diploma magistrale. Conobbe il giovane repubblicano RANDOLFO PACCIARDI, che sposò nell’immediato dopoguerra. Nel 1922 si trasferì con il marito a Roma. All’entrata in vigore delle leggi eccezionali, eludendo la sorveglianza della polizia fascista, riuscì a raggiungere Pacciardi a Lugano dove era clandestinamente emigrato .Nell’ Ottobre del 1936, Luigia seguì il marito in Spagna, e Randolfo assunse il comando del Battaglione (poi Brigata) Garibaldi, formato interamente da antifascisti italiani. La Civinini assunse compiti di assistenza nella formazione e in seguito, nel Febbraio del 1938, accompagnò negli Stati Uniti il marito per un giro di propaganda a favore della Repubblica Spagnola. Bloccati a New York dalla guerra, fecero ritorno entrambi In Italia nel 1944.
SOCRATE FRANCHI. Nato a Prata nel 1900, a dieci anni seguì i genitori a Piombino e alcuni anni dopo entrò nel movimento anarchico. Molto politicizzato durante il biennio rosso, Franchi espatriò avventurosamente in Francia, a Lione, dove per oltre un decennio frequentò da attivista i gruppi di libertari italiani di quella città. Nell’ Agosto del 1936 passò in Spagna, arruolandosi nella Colonna Italiana comandata da Carlo Rosselli e Camillo Berneri, inquadrata nella colonna Ascaso della CNT. Il libertario di Prata ebbe il battesimo del fuoco a Monte Pelato. Nel gennaio del ’37, dopo che Rosselli ebbe ceduto il comando della colonna italiana all’anarchico Emilio Canzi, Franchi fece ritorno in Francia, sfuggendo per mesi alla caccia dei delatori fascisti. In seguito, prese parte alla Resistenza contro i tedeschi nelle formazioni maquisard e per il suo coraggio guadagnò una medaglia di argento.
GIOVAN BATTISTA FRATI. Nato a Montieri il trenta ottobre 1898, giovanissimo andò a lavorare come fabbro nella miniera di Boccheggiano. Richiamato alle armi nel 1917, la terribile esperienza della guerra in trincea lo convinse, appena congedato, a schierarsi nelle file socialiste e a partecipare alle agitazioni e proteste proletarie a Massa Marittima, Colle Val d’Ela, Siena. Aderì al nascente partito comunista e patì per oltre un decennio disoccupazione e miseria. Allo scoppio della guerra civile spagnola accorse con un pugno di volontari stranieri a difendere Irùn, città di confine che attraverso un ponte collegava i Paesi Baschi con la Francia, permettendo il passaggio di armi e volontari. La lotta fu cruenta e la difesa ebbe fine per la superiorità delle forze fasciste. Ferito in combattimento, Frati venne ricoverato in Francia in un ospedale di Nizza. Una volta guarito, il comunista di Montieri , sfuggendo per anni alle ricerche della polizia fascista, collaborò con il movimento partigiano fino alla fine della seconda guerra mondiale. Trasferitosi in Corsica, morì in seguito a un’operazione chirurgica.
ERNESTO MOSCATELLI. Muratore nato a Sassofortino nel 1906. Emigrato dall’Italia dopo la strage fascista di Roccastrada del 1921, si stabilì in Francia sposando Catherine, una ragazza di Parigi che nel 1937 fece una breve visita ai parenti a Sassofortino. Da allora le ricerche della Prefettura di Grosseto circa il fuoriuscito maremmano lo collocarono tra i combattenti delle Brigate Internazionali in Spagna.
RANDOLFO PACCIARDI. Figlio del capostazione di Giuncarico, Pacciardi nacque in quel paese del grossetano nel 1899. Giovane interventista repubblicano nel 1914, partecipò alla prima guerra mondiale come ufficiale dei bersaglieri guadagnando due medaglie di argento. Laureato in legge, Pacciardi partecipò a vari scontri con i fascisti a Grosseto, quindi si trasferì a Roma al seguito di Giovanni Conti, dirigente nazionale del Partito Repubblicano.
All’approvazione delle leggi eccezionali nel 1926, Pacciardi, colpito da mandato di cattura, si rifugiò in Svizzera, e nel Canton Ticino svolse un’intensa attività di pubblicista sul quotidiano antifascista di Lugano. Passato in Francia con la moglie Luigia Civinini, Pacciardi nell’estate del 1936, alla notizia del golpe dei generali spagnoli, iniziò trattative con esponenti degli altri partiti in esilio per la costituzione di una legione di volontari italiani da inviare in soccorso della Repubblica. Non avendo aderito alla formazione di Rosselli e Berneri, in seguito a un accordo con i partiti repubblicano, socialista e comunista, Pacciardi fu nominato comandante di una legione intitolata a Garibaldi, che si pose al servizio del governo legale spagnolo e partecipò nell’autunno di quell’anno ai logoranti combattimenti per la difesa di Madrid. Il Battaglione Garibaldi, inquadrato nella XIIa Brigata Internazionale, nel febbraio del ‘37 prese parte alla battaglia del Jarama al comando di Pacciardi e in quell’occasione i volontari italiani furono scelti da Hemingway e dal regista Ivens per rappresentare i combattenti internazionali nel famoso film THE SPANISH EARTH. Un mese più tardi i garibaldini si distinsero particolarmente negli scontri a Guadalajara con le truppe regolari italiane inviate da Mussolini a sostenere il generale Franco,riportando un’esaltante vittoria sui connazionali comandati dal famigerato generale Roatta. In seguito, Randolfo Pacciardi , che con lo scrittore americano Hemingway e sua moglie, la giornalista Martha Gelhorn aveva stretto una cordiale amicizia, operò con il battaglione in vari scontri sul fronte di Aragona e nella sanguinosa battaglia di Brunete, quando il Garibaldi era stato ormai elevato al rango di Brigata, forte di oltre duemila cinquecento volontari. Nell’autunno del ’37, a causa di aspri disaccordi con gli esponenti comunisti della Brigata, Pacciardi lasciò il comando e al principio del ’38 ,e dopo una sosta interminabile a Casablanca, raggiunse gli Stati Uniti per un ciclo di conferenze in favore della Repubblica Spagnola. Nel 1941, fu chiamato ad Hollywood per una consulenza sul film che la Warner stava producendo e che con il titolo appunto di CASABLANCA divenne un mito della storia del cinema. In quell’occasione conobbe attori e celebrità quali Bette Davis e il regista Curtiz. Rientrato con la moglie Luigia in Italia nel 1944, Randolfo Pacciardi riprese l’attività politica nelle file del Partito Repubblicano e divenne Ministro della Difesa nei governi De Gasperi.
FRANCESCO PELLEGRINI. Nativo di Roccalbegna, Francesco lavorò giovanissimo come manovale edile e mosaicista. Ostile come la famiglia al Fascismo, ottenne il passaporto nel ’29 e si trasferì definitivamente in Belgio Dopo varie peripezie, approdò a Bruxelles , ove si legò a una ragazza belga da cui ebbe una bambina. Insieme a un gruppo di compagni comunisti, Pellegrini partì per la Spagna nell’ Ottobre del ’36, arruolandosi nel Battaglione Garibaldi. Ferito a Guadalajara, Francesco Pellegrini combatté a Brunete, in Estremadura e in Aragona.Dopo la battaglia dell’Ebro, alla fine del ’38, rientrò in Belgio e ivi svolse intensa attività politica nel giro degli emigrati italiani, sfuggendo varie volte all’arresto da parte dei nazisti invasori.
ITALO RAGNI. Nativo di Campagnatico, orfano di entrambi i genitori , venne allevato a Grosseto dagli zii. Giovanissimo abbracciò le idee libertarie e lavorò come bracciante e manovale edile. Sottoposto a procedimento penale per fatti sediziosi risalenti al cruento attacco fascista avvenuto a Grosseto nel ’21, Ragni lasciò per sempre l’Italia e si stabilì a Lyon, in Francia, come avevano già fatto altri compaesani libertari. Sottoposto a numerose vessazioni da parte degli agenti dell’OVRA operanti in Francia, Ragni sfuggì all’arresto e si spostò a Bruxelles , ma ben presto venne espulso dal Belgio come autore di propaganda sovversiva. Dopo una breve permanenza in Francia, Italo fu nuovamente espulso con l’accusa di aver progettato un attentato insieme a altri anarchici. Il dieci marzo del 1936, dopo altre vicissitudini di clandestino , Italo Ragni partecipò a Parigi a un meeting di Carlo Rosselli e alla fine del Luglio seguente si arruolò in Spagna nel Gruppo italiano della Colonna Ascaso. Partecipò alla battaglia di Monte Pelato dove perse la vita l’avvocato Mario Angeloni, comandante repubblicano della formazione. Combattè poi ad Almudèvar, a Huesca e in altre operazioni militari in Aragona, finché, dopo essere stato ferito, rientrò in Francia nel Maggio del 1937. Arrestato nel marzo del ’39, Ragni fu internato assieme ad altri reduci di Spagna nel famigerato campo di Gurs. Probabilmente è da questo campo che venne prelevato dalla polizia tedesca e deportato a Mathausen ove morì il 6 maggio ’41
SIRO ROSI. Nato a Sticciano nel 1915. Il padre, socialista, fu più volte arrestato quale agitatore nelle campagne grossetane ed è qui che il giovane Siro abbracciò la fede comunista. Nel 1937, Rosi con alcuni compagni si arruolò nell’esercito italiano con destinazione Spagna, con l’intenzione, una volta sbarcato a Cadice, di disertare alla prima occasione e di unirsi all’esercito popolare repubblicano. Impresa che gli riuscì sulla strada di Azuaga che porta a Campillo, in Estremadura. Arrestato dalle autorità repubblicane, per intercessione del commissario della Brigata Garibaldi Ilio Barontini,cugino del cognato,Rosi venne arruolato nel terzo battaglione della stessa Brigata. L’anno seguente, il comunista di Sticciano fu ferito nella difesa di Caspe. Denunciato per diserzione dal Corpo di Spedizione Italiano, Siro fu condannato a morte da una Corte Marziale. Riparato in Francia e rinchiuso con gli altri reduci delle Brigate Internazionali nel Campo di Gurs,riuscì ad evadere dopo la resa della Francia, quando correva il rischio di essere consegnato dai tedeschi alle autorità italiane. Si unì ai partigiani francesi e durante un’azione perse un occhio. All’inizio del ’44 passò nell’Italia settentrionale e svolte compiti importanti nella Resistenza , che culminarono con la cattura di Mussolini e dei gerarchi fascisti a Dongo, alla quale prese parte di persona. Nel dopoguerra fu coinvolto nel processo per l’oro di Dongo ma fu assolto dopo che venne dimostrata la sua specchiata probità. Negli anni seguenti, Rosi si trasferì a Roma come funzionario della Direzione del P.C.I. Morì quasi dimenticato nel 1987.
ANGIOLO ROSSI. Nato a Grosseto nel 1915, amico del comunista Vittorio Alunno, a metà del 1936 decise con lui, Luigi Amadei, Pietro Aureli e il massetano Italo Giagnoni di espatriare clandestinamente in Francia per passare nella Spagna repubblicana. Verso la fine di Agosto, tutti e cinque raggiunsero fortunosamente la Corsica dopo essersi avventurati in mare sopra una barca a vela salpata dalle Marze. Arrestato, dichiarò di essere espatriato per motivi politici essendo contrario al Fascismo. Trattenuto in reclusione con gli altri compagni, dopo una serie di formalità burocratiche riuscì ad arrivare a Parigi e a contattare dirigenti del Partito Comunista, che lo inviarono clandestinamente in Spagna insieme a un gruppo di varie nazionalità, avendo per guida un militante catalano. Il gruppo attraversò a piedi i Pirenei e Rossi, una volta pervenuto a Figueras, venne inviato in un paesino per l’addestramento. Qui lo raggiunsero Vittorio Alunno, Pietro Aureli e Luigi Amadei. Il Giagnoni era stato dichiarato inabile per un difetto alla vista e scartato dall’arruolamento. Inquadrato nella Brigata Garibaldi, Rossi partecipò alla battaglia di Campillo, dove il 17 Febbraio 1938 cadde Vittorio Alunno. Il grossetano combatté successivamente in Aragona e nella battaglia dell’Ebro. Sulla sierra del Caballs venne gravemente ferito. Nel Gennaio del ’39 lasciò per sempre la Spagna e venne internato in Francia prima nel famigerato campo di Gurs, successivamente in quello di Vernet. In seguito all’armistizio, Rossi fu consegnato alle autorità italiane e deportato, dopo un interrogatorio a Grosseto, nell’isola di Ventotene. Afflitto da una grave infiammazione agli occhi, fu trasferito all’ospedale di Sezze Romano, dove rimase fino alla caduta di Mussolini. Un mese dopo, liberato, Angiolo Rossi fece ritorno a Grosseto, dove assunse il ruolo di Segretario della Federazione Giovanile Comunista Provinciale.
EGISTO SERNI. Originario di Bolgheri, di mestiere meccanico e di fede anarchico, espatriò negli Stati Uniti. Rientrato dopo breve tempo si stabilì a Grosseto, assumendo la carica di segretario dei gruppi anarchici Pietro Gori e Germinal. Perseguitato dai fascisti, nel 1923 varcò clandestinamente le Alpi e riparò in Francia, spostandosi in varie città, ultima Chateau de Bussuet con la sua compagna Francine Lachize. Spiato continuamente da agenti della Polizia Politica italiana, Serni cambiò più volte domicilio e cercò inutilmente di farsi revocare il decreto di espulsione dalla Francia quale elemento sovversivo. Nel ’35, arrestato a Saint Etienne per non aver ottemperato al decreto di espulsione,fu rimesso in libertà grazie all’intercessione della L.I.D.U. Nell’estate seguente, allo scoppio della guerra civile spagnola, Serni varcò i Pirenei arruolandosi a Barcellona nella Colonna Italiana. Prese parte ai combattimenti di Monte Pelato e Almudevar, ma in seguito alla grave crisi della formazione susseguente alle dimissioni di Carlo Rosselli, nel febbraio del’37 fece ritorno in Francia. Arrestato della polizia transalpina al valico di Cerbères, dopo una breve detenzione Egisto Serni riprese a Saint- Etienne la sua fervente attività antifascista e dopo la resa della Francia operò attivamente nella Resistenza. Nel dopoguerra, proseguì la sua militanza in varie città , tra cui Lione e Saint Etienne, collaborando con periodici libertari fino agli anni 80
MUZIO TOSI. Nato a Massa Marittima il diciannove Luglio 1903 da padre operaio e madre casalinga, ancora in giovane età si trasferì a Piombino con la famiglia. Nella cittadine industriale dell’ alta Maremma, Muzio si legò agli anarcosindacalisti e il 4 Agosto del 1917 venne assunto come operaio negli altiforni piombinesi, e vi lavorò per alcuni anni, fino al suo trasferimento definitivo a Torino nel 1930. Nella capitale piemontese Muzio Tosi aderì a un gruppo anarchico clandestino assieme al fratello Vindice e ad altri compagni maremmani. Nel Marzo del ’31, venne arrestato per attività sediziosa e destinato al confino per due anni. Evaso da Ponza e ripreso, fu imprigionato nel carcere di Poggioreale e successivamente ricondotto a Ponza, ove rimase sino a quando fu rilasciato per l’amnistia del decennale. Ritornato a Torino, nella primavera del ’37 Muzio varcò le Alpi clandestinamente e dalla Francia raggiunse Barcellona, dove con altri correligionari si arruolò in una formazione antifranchista. In Spagna, Muzio collaborò con GUERRA DI CLASSE, il giornale diretto da Camillo Berneri sino al suo assassinio per parte di sicari stalinisti. Nell’Ottobre 1938 fece ritorno in Francia con Adela, una militante della C.N.T. che aveva sposato a Barcellona. Arrestato al suo arrivo,l’anarchico massetano venne deportato nel campo di concentramento di Argelès, dove aderì al gruppo dei reduci anarchici dalla Spagna. Liberato, aprì a Marsiglia un’attività commerciale con la moglie Adela senza rinunciare per questo alla militanza libertaria. Durante l’occupazione tedesca, collaborò con la Resistenza francese e a guerra finita, dopo nove anni di assenza, rientrò a Torino. Coerente con il suo passato, partecipò alle lotte operaie del dopoguerra fino alla morte avvenuta il tredici Settembre 1990

    L’onore perduto dell’anarchico Giuseppe Pinelli
    Ci sono peri talmente alti che a cascarci giù si impiegano 40 anni prima di toccare il suolo. Ne ha fatto l’esperienza il presidente Giorgio Napolitano, ricevendo, tra le vittime della strage di Piazza Fontana, anche Licia Pinelli, la compagna dell’anarchico caduto dalla finestra al quarto piano della questura di Milano la notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, al termine di un interrogatorio. Napolitano ha parlato di «ridare e riaffermare l’onore di Pinelli» e di «rompere il silenzio su una ferita non separabile da quella dei 17 che persero la vita a piazza Fontana». Forse il presidente si riferiva alla propria persona, e alla riunione della direzione del PCI (della quale era membro) del 19 dicembre 1969, dove, alla presenza del segretario Enrico Berlinguer, si convenne che era politicamente più saggio denunciare gli anarchici come “provocatori” piuttosto che difendere i compagni caduti dalla finestra (come Pinelli) o in galera (come Valpreda). Per rendere giustizia non solo a Giuseppe Pinelli, ma anche ai tanti che non possono “rompere il silenzio” perché in silenzio non sono mai stati, riportiamo qui il capitolo sulla morte dell’anarchico Pinelli tratto dalla controinchiesta “La strage di Stato”, integralmente leggibile qui [G.D.M.].

     
    Come è morto Giuseppe Pinelli
    È circa la mezzanotte di lunedi 15 dicembre 1969. Un uomo discende lentamente lo scalone principale della questura di Milano. Giunto nell’atrio dell’ingresso principale di via Fatebenefratelli si ferma un momento, accende una sigaretta. È indeciso se uscire, andarsene a casa, oppure rimanere ancora qualche minuto, fare un attimo il giro negli uffici della squadra mobile che stanno lì di fronte a lui, dall’altra parte del cortile. Sono giornate faticose queste per i cronisti milanesi e lui in particolare si sente stanco, avvilito: si sa già che nella mattina è stato arrestato un anarchico di nome Valpreda; c’entrerà davvero con le bombe di Piazza Fontana? E poi nelle camere di sicurezza della questura, nelle stanze al quarto piano dell’ ufficio politico ci sono ancora almeno un centinaio tra anarchici e giovani della sinistra extraparlamentare che da tre giorni, dal venerdì delle bombe, sono sottoposti a continui interrogatori.
    L’uomo, Aldo Palumbo, cronista de l’Unità di Milano, muove i primi passi per attraversare il cortile. E sente un tonfo, poi altri due, ed è un corpo che cade dall’alto, che batte sul primo cornicione del muro, rimbalza su quello sottostante e infine si schianta al suolo, per metà sul selciato del cortile, per metà sulla terra soffice dell’aiuola. Palumbo rimane paralizzato per qualche secondo al centro del cortile, poi si avvicina al corpo, ne distingue i contorni del viso. E subito corre a dare l’allarme, agli agenti della squadra mobile, agli altri cronisti che sono rimasti in sala stampa quando lui è uscito.
    La mattina dopo tutti i quotidiani escono a grossi titoli con la notizia del suicidio di Giuseppe Pinelli. Di questi giornali, quelli che al momento dell’incidente avevano il loro cronista in questura scrivono che il suicidio è avvenuto a mezzanotte e tre minuti. Nei giorni seguenti, stranamente questo particolare del tempo viene modificato: prima lo si corregge a “circa mezzanotte”, poi lo si sposta ancora indietro, sino ad arrivare ad un tempo ufficiale: “Pinelli è morto alle ore undici e 57 minuti del lunedì notte 15 dicembre”.

    Ai primi di Febbraio, dall’inchiesta condotta dalla magistratura trapela un particolare: la chiamata fatta quella notte dalla questura di Milano al centralino telefonico dei vigili urbani per richiedere l’intervento di una autoambulanza, è stata registrata da uno speciale apparecchio e quindi si può stabilire con certezza l’attimo esatto, che risulta essere mezzanotte e 58 secondi. Come a dire due minuti e due secondi prima della caduta di Pinelli, se si sta al tempo segnalato da tutti i giornalisti che erano in questura quella notte. Si è trattato di una svista collettiva, e abbastanza clamorosa per gente abituata ad avere delle reazioni automatiche, professionali, quali il guardare per prima cosa l’orologio quando avviene un incidente del genere? È un fatto però che nel frattempo sono successe due cose strane.
    Qualche giorno dopo la morte di Giuseppe Pinelli, due agenti della squadra politica della questura si sono presentati al centralino telefonico dei vigili urbani per controllare il momento esatto di registrazione della chiamata. Cosa significa questo zelo del tutto gratuito dato che è la magistratura, e non la polizia, che si occupa dell’inchiesta sulla morte di Pinelli? Perché preoccuparsi tanto dell’orario di chiamata dell’ambulanza se le cose si sono svolte così come sono state raccontate? La risposta potrebbe essere questa: la chiamata e stata fatta prima che Giuseppe Pinelli cadesse dalla finestra.
    Verso i primi di gennaio il giornalista Aldo Palumbo, la prima persona che si è avvicinata a Giuseppe Pinelli morente nel cortile della questura, trova la sua abitazione sottosopra. Qualcuno è entrato, ha rovistato dappertutto, ha aperto cassetti, rovesciato mobili, frugato armadi. Ladri? Sarebbero ladri ben strani considerato che non hanno rubato né le tredicimila lire che erano in una borsa, e che pure devono aver visto poiché la borsa è stata aperta, e neppure quei pochi gioielli nascosti in un’altra borsa, pure essa trovata aperta. Due quindi le ipotesi: o gli ignoti cercavano qualcosa, qualcosa collegato agli ultimi istanti in qui il giornalista fu vicino, e da solo, a Giuseppe Pinelli morente; oppure si è trattato di un avvertimento, un monito a tenere la bocca chiusa rivolto a chi, come Aldo Palumbo, poteva essere sospettato di sapere qualcosa, forse di aver sentito mormorare da Pinelli un nome, una frase.
    Basterebbero questi primi, pochi elementi per formulare pesanti sospetti sulla versione dell’anarchico morto suicida. In realtà ce ne sono molti altri, e sono questi.
    Pinelli cade letteralmente scivolando lungo il muro, tanto che rimbalza su ambedue gli stretti cornicioni sottostanti la finestra dell’ufficio politico; non si è dato quindi nessuno slancio.
    Cade senza un grido e i medici stabiliranno che le sue mani non presentano segni di escoriazione, non ha avuto cioè nessuna reazione a livello istintivo, incontrollabile, nemmeno quella di portare le mani a proteggersi durante la “scivolata”.
    La polizia fornisce nell’arco di un mese tre versioni contrastanti sulla meccanica del suicidio. La prima: quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo ma senza riuscirci. La seconda: quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo e ci siamo parzialmente riusciti, nel senso che ne abbiamo fermato lo slancio: come dire, ecco perchè è scivolato lungo il muro. Ma questa versione è stata resa a posteriori, dopo cioè che i giornali avevano fatto rilevare la stranezza della caduta. Infine l’ultima, la più credibile, fornita in “esclusiva” il 17 gennaio 1970 al Corriere della sera: quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo ed uno dei sottufficiali presenti, il brigadiere Vito Panessa, con un balzo “cercò di afferrarlo e salvarlo; in mano gli rimase una scarpa del suicida”. I giornalisti che sono accorsi nel cortile, subito dopo l’allarme lanciato da Aldo Palumbo, ricordavano benissimo che l’anarchico aveva ambedue le scarpe ai piedi.
    Poi la polizia fornisce due versioni contrastanti anche sul movente anche sul movente del suicidio. Primo: Pinelli era coinvolto negli attentati, il suo alibi per il pomeriggio del 12 dicembre era crollato, e sentendosi ormai perduto ha scelto la soluzione estrema, gridando “È la fine dell’anarchia”. Seconda versione, fornita anche questa a posteriori, dopo che l’alibi era risultato assolutamente valido: Pinelli, innocente, bravo ragazzo, nessuno riesce a capacitarsi del suo gesto.
    Dando questa seconda versione, la polizia afferma anche che la tragedia è esplosa nel corso di un interrogatorio che si svolgeva in una atmosfera del tutto legittima, civile e tranquilla, con scambio di sigarette ed altre delicatezze del genere. L’anarchico Pasquale Valitutti, uno dei tanti fermati che tra il venerdì delle bombe ed il lunedì successivo hanno riempito le camere di sicurezza della questura, ha fornito invece questa testimonianza: “Domenica pomeriggio ho parlato con Pino (Pinelli) e con Eliane, e Pino mi ha detto che gli facevano difficoltà per il suo alibi, del quale si mostrava sicurissimo. Mi anche detto di sentirsi perseguitato da Calabresi e di avere paura di perdere il posto alle ferrovie. Verso sera un funzionario si è arrabbiato perchè parlavo con gli altri e mi ha fatto mettere nella segreteria che è adiacente all’ufficio di Pagnozzi [un altro commissario, come Calabresi, dell’ufficio politico: n.d.r.]; ho avuto occasione di cogliere alcuni brani degli ordini che Pagnozzi lasciava ai suoi inferiori per la notte. Dai brani colti posso affermare che ha detto di riservare a Pinelli un trattamento speciale, di non farlo dormire e di tenerlo sotto pressione per tutta la notte. Di notte il Pinelli è stato portato in un’altra stanza e la mattina mi ha detto di essere molto stanco, che non lo avevano fatto dormire e che continuavano a ripetergli che il suo alibi era falso, mi è parso molto amareggiato. Siamo rimasti tutto il giorno nella stessa stanza, quella dei caffé, ed abbiamo potuto scambiare solo alcune frasi, comunque molto significative. Io gli ho detto “Pino, perchè ce l’hanno con noi?” e lui molto amareggiato mi ha detto: “si, ce l’hanno con me”. Sempre nella stessa serata del lunedì gli ho chiesto se avesse firmato dei verbali e lui mi ha risposto di no. Verso le otto è stato portato via e quando ho chiesto ad una guardia dove fosse , mi ha risposto che era andato a casa. Io pensavo che stesse per toccare a me di subire l’interrogatorio, certamente più pesante di quelli avvenuti fino ad allora: avevo questa precisa impressione.. dopo un po’, verso le 11, 30 ho sentito dei rumori sospetti, come di una rissa ed ho pensato che Pinelli fosse ancora li e che lo stessero picchiando. Dopo un po’ di tempo c’è stato il cambio della guardia, cioè la sostituzione del piantone di turno fino a mezzanotte. Poco dopo ho sentito come delle sedie smosse ed ho visto gente che correva nel corridoio verso l’uscita, gridando “si è gettato”. Alle mie domande hanno risposto che si era gettato il Pinelli: mi hanno anche detto che hanno cercato di trattenerlo ma che non vi sono riusciti. Calabresi mi ha detto che stavano parlando scherzosamente del Pietro Valpreda, facendomi chiaramente capire che era nella stanza nel momento in cui Pinelli cascò. Inoltre mi ha detto che Pinelli era un delinquente, aveva le mani in pasta dappertutto e sapeva molte cose degli attentati del 25 aprile. Queste cose mi sono state dette da Panessa e Calabresi mentre altri poliziotti mi tenevano fermo su una sedia pochi minuti dopo il fatto di Pinelli. Specifico inoltre che dalla posizione in cui mi trovavo potevo vedere con chiarezza il pezzo di corridoio che Calabresi avrebbe dovuto necessariamente percorrere per recarsi nello studio del dottor Allegra e che nei minuti precedenti il fatto [cioè la stessa caduta di Pinelli n.d.r.] Calabresi non è assolutamente passato per quel pezzo di corridoio”.

    Dunque l’ultimo interrogatorio di Giuseppe Pinelli non è stato così tranquillo come si è cercato di far credere, ed è falso anche che al momento della caduta il commissario aggiunto Luigi Calabresi non fosse presente nella stanza. Ma perchè queste menzogne? La risposta può essere trovata in un articolo pubblicato dal settimanale Vie Nuove nelle settimane seguenti.
    “Quando l’anarchico fu trasportato nella sala di rianimazione dell’ospedale Fatebenefratelli non era in condizioni di coscienza, aveva un polso abbastanza buono ma il respiro molto insufficiente, il che poteva essere provocato da ragioni organiche (cioè il gran colpo dell’impatto con il terreno o qualcosaltro) oppure psicologiche (cioè lo stato di tensione precedente alla caduta, ma questa sembra un’eventualità meno valida.) Il particolare che stupì i medici fu che il corpo, almeno da un esame superficiale, non presentava nessuna lesione esterna ne perdeva sangue dalle orecchie e dal naso, come avrebbe dovuto essere se Pinelli avesse battuto violentemente la testa. Una constatazione, questa, che fa sorgere subito un’altra domanda in chi non ha mai voluto credere nella versione del suicidio: se è vero, come sembra, che la necroscopia ha accertato una lesione bulbare all’altezza del collo, quale si sarebbe potuta produrre battendo al suolo il capo, come mai orecchie e naso non sanguinavano ne volto e testa non presentavano lesioni evidenti? Per logica si arriva quindi ad una seconda domanda: non è possibile che quella lesione al collo fosse stata provocate prima della caduta? Come e da cosa non ci vuole molta fantasia per immaginarlo: sono ormai molti anni che nelle nostre scuole di polizia quella antica arte giapponese di colpire col taglio della mano, nota come Karatè. Fossero stati interrogati, quei due medici [che hanno prestato cure a Pinelli morente n.d.r.] avrebbero potuto raccontare un altro episodio. Quella notte del 16 dicembre, nell’ atrio del Fatebenefratelli regnava una grande confusione. Si era trasferito tutto lo stato maggiore della polizia milanese, il questore Marcello Guida compreso. Ma la polizia era presente anche all’interno della sala di rianimazione dove i due medici tentavano invano di tenere in vita Giuseppe Pinelli, tranquillo, silenziose, non molto turbato dalla vista dell’operazione di intubazione orotracheale e di ventilazione con il pallone di Ambù alla quale l’anarchico veniva sottoposto, un poliziotto in borghese, camicia e cravatta, baffetti neri e un distintivo all’occhiello della giacca, non si allontanò neanche per un attimo dal lettino dove Pinelli stava morendo, attento a raccogliere ogni suo rantolo. […] Chi gli ha dato l’ordine di entrare nella stanza compiendo un abuso di autorità che non è tollerato negli ospedali? E perchè è entrato, cosa pensava o temeva che Pinelli potesse dire prima di morire?”
    I risultati dell’autopsia, dalla quale sono stati esclusi i periti di parte, non vengono resi noti. I due medici – Gilberto Bontani e Nazareno Fiorenzano – che hanno tentato di salvare Pinelli, solo il secondo, e solo molte settimane più tardi, e dietro istanza della moglie dell’anarchico, viene interrogato dal procuratore Giuseppe Caizzi, il magistrato cui è affidata che nel mese di maggio 1970 si concluderà con un sibillino verdetto di “morte accidentale” (non suicidio quindi, se la lingua italiana ha un senso. Ma allora la polizia ha mentito…).
    Subito dopo che il dottor Nazareno Fiorenzano è stato interrogato, nel palazzo di giustizia circola una voce secondo cui la polizia lo ha pesantemente “avvertito” che il caso Pinelli è un caso da archiviare, e perciò è meglio che non si ponga troppi interrogativi. Ma cosa può aver notato o capito il medico di guardia davanti al corpo di Pinelli morente?
    La testimonianza che egli rilascia a un collega prima di essere interrogato dal magistrato e questa:
    “1) Gli infermieri che raccolsero Pinelli ebbero l’impressione che fosse già morto.
    2) Il massaggio cardiaco esterno fu praticato da un infermiere di nome Luciano.
    3) Solo eccezionalmente – e per lo più in vecchi dallo scheletro rigido – il massaggio cardiaco può produrre incrinature alle costole.
    4) Da quando fu raccolto, e fino alla morte Pinelli non emise nè un lamento nè una parola.
    5) Quando Pinelli arrivò al pronto soccorso del Fatebenefratelli, non aveva più polso, pressione e respirazione. Appariva decerebrato; ma il dottor Fiorenzano non ebbe l’impressione che la teca cranica fosse fratturata. Non perdeva sangue dagli occhi, dal naso, dalla bocca. Presentava anche abrasioni alle gambe. Lesione bulbare? Mani intatte.
    7) Pinelli fu intubato, sottoposto a ventilazione artificiale ed altre pratiche di rianimazione. Riebbe polso e pressione. Respiro che confermerebbe lesione bulbare. Mancanza di riflessi ecc. confermano che (parole testuali) “si trattava di un morto cui avevano dato un po’ di vita vegetativa” Rianimazione sospesa dopo 90′.
    Il dottor Guida arrivò tre minuti dopo Pinelli. Disse al dottor Fiorenzano che non poteva fare nulla contro l’irreparabile, ebbe l’aria di scusarsi e se ne andò.
    9) Il dottor Fiorenzano ignorava l’identità del ferito, che non gli fu detta dai poliziotti. La sua insistenza per conoscerla irritò molto i poliziotti.
    10) I poliziotti ripetevano, tutti con le stesse parole, che si era buttato dalla finestra. Sembra ripetessero una formula.”

    Altri articoli su Pinelli pubblicati su Carmillaonline:
    La testimonianza di Pasquale Valitutti
    12 dicembre 2006: nessun imputato per l’anniversario
    La lapide di Giuseppe Pinelli

    http://youtu.be/p6lEU2sVLuY il film 12 dicembre di Lotta Continua e Pasolini
    http://youtu.be/jlL2u8nv4tY La ballata dell’anarchico Pinelli
     
    LETTI PER VOI :

    Finalmente uscito il libro di Osvaldo Bayer, Severino Di Giovanni, c’era una volta in America del sud Ed. Agenzia X Traduzione Alberto Prunetti
    Un tango punk nero anarchico, un libro che si legge di un fiato, l’epopea di un anarchico espropriatore emigrato in Argentina, irriducibile nemico del fascismo e di chiunque tentennasse nello stesso movimento libertario, ma anche una incredibile storia d’amore indifferente alla stessa morte
    Ecco un brano che racconta del primo arresto di Severino a Baires mentre contesta una serata di gala al teatro Colon per l’ambasciatore italiano del regime fascista
    L’ambasciatore non è ancora convinto. No, non può essere. Sì, disgraziatamente sì. in camicia nera non hanno reagito con l’efficienza prevista, perché non si aspettavano un attacco del genere. Appena riavutisi dalla sorpresa, si lanciano con santa indignazione conto i rivoltosi.
    Ma questa è gente che si difende bene. Il trambusto è totale, le prime file prossime al paradiso si svuotano, le donne gridano e gli uomini si danno alla fuga. Cazzotti vanno e vengono. Arrivano anche i manganelli tenuti in un angolo dai fascisti. Sembra però che i facinorosi abbiano la testa dura. Specialmente uno biondo, che si difende come un leone. Prende in mano un volantino e con voce da baritono, che arriva in platea, grida: “Santificatori della monarchia Sabauda, avete dimenticato che proprio sotto il regno di Vittorio Emanuele Terzo, per grazia di Dio e volontà… di pochi…”
    In quello stesso momento una camicia nera lo prende per il collo e prova a trascinarlo oltre le poltrone. Ma il ragazzo biondo vestito di nero ha la forza d’una bestia. Si libera di quelli che lo stanno tempestando di manganellate, pugni e pedate, si ferma sulla prima fila e continua:“…Re d’Italia… sorse, si alimentò nel sangue quell’accozzaglia di briganti che si chiamano fascisti! Con tutti i suoi Dumini, i Filippelli, i Rossi, i De Vecchi, i Regazzi, i Farinacci… e che trova in Benito Mussolini…

    La lotta prosegue senza quartiere. A terra si rotolano uomini intenti a scambiarsi colpi e morsi. I rivoltosi si difendono con le unghie e con i denti ma le camicie nere continuano a ricevere rinforzi. Gli spettatori in basso si sentono in dovere di salire e mettere ordine nel paradiso. Giovani e vecchi – quest’ultimi coi bastoni – salgono le scale a larghe falcate per dare quel che si meritano ai perturbatori dell’ordine. Intervengono anche i pompieri e la polizia. L’orchestra prova a tirare avanti ma le note sono meno marziali.
    Alcuni dei rivoltosi sono già stati ricondotti alla ragione. Dieci, dodici paia di braccia, pugni e bastoni si abbattono sulle teste dei ribelli. Ma il giovane biondo vestito di nero, in piedi su una poltrona, continua il suo discorso più volte interrotto:“…in Benito Mussolini la più precisa e perfetta raffigurazione di tutte le infamie. Glorificatori della
    Monarchia, appuntellata dal pugnale dei Dumini, scrivete nella storia della Casa Savoia questo nome glorioso: Matteotti!”

    Ma non può andare avanti. Braccia ferree lo af ferrano per il collo mentre una camicia nera lo prende a pugni sull’occhio sinistro. Quando lo trascinano per il corridoio ha ancora la forza di gridare:
    Ricordate i 700 assassinati nel 1898 dai cannoni di Umberto il Buono! W la mano di Bresci!”
    Tutti vogliono linciarlo: eleganti signore dalla faccia scomposta e ragazzotti con espressioni da campo di battaglia. Alla fine i dieci impertinenti sono catturati e affidati alle cure di polizia e pompieri. Li radunano nella hall e li ammanettano. Quando arriva il cellulare li fanno mettere in fila indiana, costretti ad avanzare in mezzo a una folla indignata. Prima di montare sul veicolo il giovane rivoltoso biondo lancia un preciso sputo contro la faccia di un rigido militare italiano col cappello da bersagliere.
    Poi grida: “Viva l’anarchia!”
     
    Nuovo grande libro di Alessandro Angeli

    Alessandro Angeli, I ragni in testa – Racconti di un’Italia invisibile

    Una manciata di narrazioni, l’una dentro l’altra: chissà perché si dice che le raccolte di racconti non vanno più. Forse chi lo dice legge le raccolte sbagliate.
    Quella di Angeli è la favola oscura del mondo che non vediamo più, il racconto della nostra anima migrante seminata chissà dove. Alessandro mette in bocca a quattro viaggiatori coatti, transfughi per fame (mica per vezzo), l’assoluta verità sul nostro Infame Paesello.

    Nella prima storia che dà il titolo all’antologia, l’autore segue camera a spalla un personaggio (quasi) senza nome (i protagonisti de I ragni in testa non hanno piacere a dirvi come si chiamano, a meno che non sia proprio necessario) dall’Africa al Sud (rosso di sangue e sugo di pomodoro) e ritorno. Ma non c’è traccia del viaggio, solo la desolazione dell’impermanenza: lavoro duro, nei campi. Già, proprio quel lavoro che gli italiani non fanno più. La fatica è la stessa dei nostri nonni in viaggio di là dall’Oceano, degli schiavi italiani appesi alle travi dell’Empire State Building, dei macaronì nelle miniere del Belgio. La fatica di chi parte a pancia vuota è sempre la stessa. Di questo narra Angeli, con la prosa asciutta e tagliente di chi sa come si maneggiano i ferri del mestiere.

    La sposa bianca, la storia numero due, racconta che vuol dire crescere a Sud e dover scappare per paura, con la rabbia addosso e nessun futuro. Chi scappa è italiano come me e voi. Eppure si sente straniero persino a casa sua, dove se non fai come ti dicono finisci lamato in faccia. O magari quella fine la fa tuo fratello, che la testa non l’aveva mai alzata, per tutta la vita. Il mondo è ingiusto a Sud perché comandano Loro. E a Nord fa freddo, troppo freddo pure se le persone sono gentili e l’inglese, alla fine, s’impara in fretta. Dunque si torna, si torna sempre. Ma è sempre troppo tardi, perché quaggiù non cambia mai niente.

    Dietro alla porta numero tre c’è il mito che non ti aspetti. La giostra dei camminanti dice un’alterità al quadrato: crescere in un campo nomadi alla periferia di Napoli significa non avere niente. E doversi sentire pure in colpa per quel niente fottuto. Il piccolo Ragno lo sa bene, e gli tocca combattere con gli amici (che lo sfottono perché è secco e stupido), fare i conti col futuro che salta in bocca a tutti tranne che a lui (la più bella del campo si sta per sposare. Ma potete scommetterci il culo che quell’abito bianco non se lo infilerà per uno che se ne va in giro con un soprannome a otto zampe), per poi accorgersi che là fuori, oltre il confine arrugginito e freddo, le cose vanno ancora peggio. Occhio Ragno, attento a come ti porti: se scazzi, qualcuno finirà per darti fuoco. Le stesse cose se le sentivano ripetere i nostri padri e nostri nonni, appena arrivati nella Terra Promessa.
    Il libro, che parla di tutto fuorché d’italiani, chiude con una parabola classica, una storia sempiterna e dura a morire, come i pregiudizi che innaffiano la pianta malata del Tricolore: Metaponto è la storia d’un terrone.
    Un terrone a Torino.
    XXI secolo, che andate a pensare? E ancora stiamo con questi luoghi comuni?
    Proprio così, fratelli. E non venite a dirmi che non ne sapevate niente. Non mi raccontate che vi siete scordati che vuol dire partire soli, arrivare di notte, dormire insieme a degli estranei, in un posto che non si è scelto e che puzza di piedi. Faticare per stare al passo, faticare in un’aula troppo piena, faticare alla pressa, otto ore filate.
    E poi ancora solitudine, gelo, voglia di casa e nessuna possibilità di tornare indietro. Come dite? Non ne sapete niente? Chiedete ai vostri geni. Alla pelle, al sangue che vi scorre in pancia.
    Chiedete al passato, maledetti smemorati. Il passato non racconta balle: la
    loro fame è la nostra fame. Non scordatevelo mai

    (Simone Sarasso)
     
    Appena uscito un libro molto interessante che racconta la storia del Collettivo Operaio di Colle Val d’Elsa tra la fine degli anni ’60 e ’70, il suo pregio è restituire la dimensione umana dei protagonisti che, figli del popolo, semplici operai nati nei primi anni ’50, scopriranno il gusto di prendere in mano il proprio destino lontano dalla cappa burocratica di un partito che pretendeva di dirigere tutto in maniera dogmatica e infallibile. La scoperta della musica rock, della beat generation, delle radici anarchiche di una Colle ribelle, il movimento studentesco e il ’68, la radiazione dal partito che non volle capire e discutere……
    ecco il link del libro e delle presentazioni http://utopiadellabase.it

    presentazione all’osteria dell’orso a Monteriggioni
    L’utopia della base
    Un Collettivo operaio nella Toscana tra gli anni ’60 e ’70

    Autori: Francesco Corsi, Pietro Peli, Stefano Santini
    Editore: Punto Rosso www.puntorossolibri.it
    Milano, 2011

    “L’utopia della base” è un titolo eloquente. Dice già molto, dice quasi tutto, di che si tratta. Siamo di fronte a un racconto, a una storia narrata, che coinvolge un gruppo di persone, che si intestardiscono, per anni e non per giorni, a dire la loro, a fare la loro parte e a stare in campo, liberi e forti, nelle vicende contemporanee, là dove vivono, lavorano e lottano.(Mario Tronti)
     
    Tiziano Arrigoni La piccola patria Storia di Elvezio Cerboni partigiano Bancarella ed. Piombino

     
    Un bel libro con molte foto e testimonianze, che porta un poco di luce sulla figura di uno dei capi della Resistenza massetana prima durante il fascismo e poi con la lotta armata dopo l’8 settembre. Peccato che l’autore sottolinei sin troppo le discendenze mazziniane del Cerboni a scapito della militanza comunista della medaglia d’argento negli ultimi anni della sua vita. Già la Torre Massetana nel dopoguerra aveva scritto che Elvezio era morto gridando “W l’Italia” mentre dal carteggio della famiglia Cerboni pare abbia gridato con il pugno chiuso “W Lenin W il Comunismo”. Il libro di Arrigoni poi, come molti altri, fa solo in parte i nomi dei fascisti picchiatori e assassini e dei loro mandanti. Gli uni e gli altri quasi tutti scampati alla giustizia o amnistiati rapidamente per poi riprendere il loro posto di comando, come il farmacista Niccolini o l’agrario Vecchioni. Tra i pochi che pagarono, finì fucilato nel ’45 ad Asti il famigerato conte Nardulli, che qui, durante una delle sue scorribande, terrorizzò anche la famiglia De Andrè sfollata nelle campagne astigiane dalla natia Genova.
    ULTIMISSIME : In riferimento al numero scorso di Maremma Libertaria e al pezzo “Un rural squat a Siena” dobbiamo purtroppo aggiornare che gli occupanti di Campofico sono stati sgomberati la mattina del 17 novembre con uno schieramento di decine di poliziotti, carabinieri, vigili urbani, forestali, digos, blindati, camionette, ambulanze, pompieri, elicotteri sotto la supervisione e direzione sul campo del Questore di Siena. Dodici persone si sono ritrovate gettate in un bosco sotto una tenda, non è chiara la fine che hanno fatto api e capre allevate in loco. Tanto zelo e spiegamento di mezzi più che eccessivo e grottesco ci pare assolutamente ridicolo, se ci fosse ( ma non c’è, si parla di “”brillante operazione” ! ) un minimo di senso delle proporzioni, chi l’ha attuato, da sempre forte con i deboli e debole con i forti, si dovrebbe vergognare per le prossime sette generazioni. E a questo proposito vorremmo far notare anche che le stesse forze dell’ordine non hanno minimamente lesinato il possesso di un porto d’armi che ha permesso al militante fascista e razzista assassino di casapound di fare il tiro a segno con una 357 magnum sui senegalesi fiorentini il 13 dicembre uccidendo Samb e Diop .Non ci risultano per questo essere arrivate scuse o mea culpa della Questura in esame. Pensate un po’ se avessero richiesto il porto d’armi non dico i senegalesi, ma i militanti di qualche coordinamento antifascista…….Per non parlare del fatto che l’apologia di fascismo è vietata dalla legge della Repubblica, ma i fascisti di tutte le peggiori risme come i beccamorti di casapound possono liberamente scorrazzare, provocare,aggredire. Due piombi e due misure.
    Tragicomiche notizie invece da Siena. Dopo anni di diatribe intestine la contrada dell’Oca ( detta l’infamona) ha infine concesso, buon ultima nel mondo, il diritto di voto alle donne. Poi, alcuni giorni dopo, ha espulso a vita ( la peggior jattura che possa accadere ad un senese) trenta contradaiole che avevano osato rivolgersi alla magistratura ordinaria. Il Sindaco PD si è affrettato a dichiarare…che non intende intromettersi nella questione, l’assessora alle pari opportunità tace, il ragazzo prodigio di SEL assessore rampante giovanil vendoliano, anche. Altro che candidatura a capitale europea della cultura! Tribali, medioevali gretti e omertosi, nonchè, chiaramente, misogini. Miseri, dentro, nonostante i portafogli by MPS.
    ( S. P.)
    L’angolo del cestino lettere,mail, invettive, critiche o articoli a stefanoulisse@libero.it
    Riceviamo una e mail firmata da Cristian, Siena
    Ho letto con interesse il n 4 della tua rivista. Devo dirti che ho trovato un po’ incredibile l’articolo sulla caccia ai frati e ai preti che si sarebbe praticata a Massa Marittima fino a poco tempo fa….
    Caro Cristian (anche te con questo nome te la cerchi eh!)no, niente di inventato o esagerato, anzi. Su “Toscana oggi” di agosto, mensile delle diocesi toscane, se vuoi puoi trovare una interessante inchiesta con tanto di classifica delle province più scristianizzate in Italia, indice fatto incrociando dati come matrimoni civili, figli fuori dal matrimonio, frequenze delle messe etc. Ebbene,Firenze è prima assoluta, Siena , Livorno e la Maremma sono in ottima posizione. Oppure se vuoi ti cito dal libro appena uscito di Tiziano Arrigoni, Storia di Elvezio Cerboni partigiano, a pag 11 “Massa Marittima era una Maremma “altra”…terre contadine ma anche miniere, operai, e accanto agli ideali repubblicani si svilupparono anche quelli socialisti e anarchici, contribuendo a secolarizzare sempre più la società massetana. Nel censimento del 1911 su 9479 abitanti ben 4602 dichiararono di non appartenere a nessuna religione! In quegli anni il visitatore apostolico Pietro La Fontaine scrisse:Massa, Piombino, Follonica sono paesi omicidi; non si ammazza il prete solo perchè difeso dai carabinieri…insomma è una diocesi disgraziata, il popolo è anticristiano, le famiglie fanno giuramento di non andare mai in chiesa e di non mandarvi i figli…gli uomini e talora le donne non si contentano di essere pagani ma odiano i cristiani…dove sono cave, miniere, forni fusori, là è l’inferno.” Che altro dire? Bei tempi !!!
    La scrivania di Luciana Bellini
    Ora mi rendo conto che la vita di queste Donne è un filo…e quell’unico filo che si srotola da una matassa più o meno intrigata è anche il mio. E mi viene da ride’ e da piange’ , ma più da ride’ perchè capisco che nonostante la miseria, le botte e i patimenti, hanno vinto loro. Eh sì, la Terra delle Donne è un titolo che mi è venuto dal cuore, non l’ho cercato, c’era prima che ci fossero le storie. Per me quella terra ha un significato profondo chè, profonda è la terra dell’anima, quella del grano, della vite e del fiore. Vorrei tu le vedessi, che tu le sentissi mentre raccontano. Lo fanno con naturalezza, così, con semplicità e maestria come se scalzettassero, cucissero o cucinassero. Se tu le ascoltassi, so’ sicura che diresti che è musica!

     
    (dall’introduzione di Luciana a La terra delle Donne, Stampa Alternativa ed.)
    Link utili www.stefanopacini.org www.radiomaremmarossa.it
    www.carmillaonline.com www.ltmd.it www.infoaut.org
    http://collettivoanarchico.noblogs.org www.senzasoste.it
    www.finimondo.org
    Maremma Libertaria Esce quando può e se e come gli pare. Non costa niente, non consuma carta e non inquina, se non le vostre menti. Vive nei nostri pensieri,perchè le idee e le rivoluzioni non si fanno arrestare, si diffonde nell’aere se lo inoltrate a raggera. Cerca di cestinare le cartoline stucchevoli di una terra di butteri e spiagge da bandiere blu,che la Terra è nostra e la dobbiamo difendere! Cerca di rompere la cappa d’ipocrisia e dare voce a chi non l’ha, rinfrescando anche la memoria storica, che senza non si va da nessuna parte. Più o meno questo è il Numero 5 del 21dicembre 2011.Maremma Libertaria può essere accresciuta in corso d’opera ed inoltro da tutti noi, a piacimento, fermo restando l’antagonismo , l’antifascismo e la non censura dei suoi contenuti.
    In Redazione, tra i cinghiali nei boschi dell’alta maremma, Erasmo da Mucini, Ulisse dalle Rocche, il Fantasma della miniera, le Stelle Rosse stanno a guardare, Complici vari , Ribelli di passaggio,maremmani emigrati a Barcelona.
    No copyright, No dinero, ma nel caso idee, scritti, foto, solidarietà e un bicchiere di rosso.
    Nostra patria il mondo intero, nostra legge la Libertà, ed un pensiero Ribelle in cuor ci sta (Pietro Gori) http://youtu.be/_KVRd4iny8E
    Potranno tagliare tutti i fiori, ma non riusciranno a fermare la Primavera (Pablo Neruda) http://youtu.be/wEy-PDPHhEI (Victor Jara canta Neruda)

    Sempre, comunque e dovunque : Libertà per tutti i compagni arrestati !– Fori i compagni dalle galere !-Libertad para todos los presos ! – liberdade para companheiros presos! -comrades preso askatasuna!- liberté pour les camarades emprisonnés!-freedom for imprisoned comrades !- Freiheit für inhaftierte Genossen!- ελευθερία για φυλακισμένους συντρόφους ! – الحرية لرفاق السج