Noi sognavamo il mondo
Noi sognavamo il mondo
Il viaggio di Stefano Erasmo Pacini attraversa il pubblico per scavare nel privato e tornare a sciogliersi nella collettività: sono le facce e i corpi e i pensieri e i passi, i gesti, di chi ha sognato per un momento soltanto e di chi non ha mai smesso di farlo, a occhi aperti o chiusi, per indole o per necessità, ostaggio di una stagione o protagonista della propria esistenza fino all’ultimo goccio.
Questo libro mi sembra appartenere a chi attraversa la storia colorandola, sporcandola, aggredendola o subendola, mordendone la coda senza scriverla mai, eppure riuscendo – non soltanto attraverso queste immagini – a esserne protagonista. E sono le strade, i muri, il cielo e il mare che hanno accolto e respinto questa umanità: lo sgretolarsi delle città ai suoi (nostri) fianchi, si tratti di Volterra, di Mostar o de L’Avana; l’aprirsi di un orizzonte, di uno squarcio nel buio, il riedificarsi del sogno successivo; le rughe dettate dal tempo che passa o dallo sbocciare di un sorriso.
Il linguaggio è netto, senza fronzoli né trucchi, senza velleità eppure riconoscibile: ogni scatto guarda all’universo del Noi ma riflette le mani, l’occhio, il blues interiore di Stefano Pacini; dritto per dritto, nei colpi al cuore come nelle carezze, un bianco e nero che non fa sconti tramutandosi in narrazione, coinvolgendo lo spettatore nel compimento dell’opera: sta a chi sfoglia il libro (e non sarà una volta soltanto) immaginare tutte le foto rimaste nel cassetto e scegliere quelle più utili a cucire ogni pagina alla successiva. E proiettarsi oltre il punto, l’immagine finale, poiché questo viaggio non sembra affatto concluso.
Emiliano Gucci settembre 2016
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