Meraviglie natalizie dalla Maremma profonda, 1965
Il ricordo dell’atmosfera di festa nelle province profonde di 50 anni fa ci mostra cosa è stato il nostro paese. Un mondo “remoto e fantastico”, sebbene recente. Un “far west” quotidiano fatto di difficoltà, condivisione, sogni
di Stefano Pacini
C’è stato un tempo, lontano, ma così vivido da avvertirne ancora l’aria fresca in faccia, in cui mi stupivo felice delle lucciole che facevano i soldini e di Babbo Natale e la Befana che portavano dolci e giocattoli. Era una gioia ancora pura, alimentata dalla solitudine nel podere di campagna dell’Ente Maremma, senza ragazzi più grandi che mi potessero infrangere, con la loro superiore malizia, i miei sogni ad occhi aperti.
Era un tempo povero, difficile, duro, nessun ricordo nostalgico o edulcorato lo potrà ridurre ad una favoletta moderna. Ma era anche un tempo felice proprio perchè le difficoltà facevano apprezzare i faticosi passi in avanti, i pranzi e le cene sudate e stanche. E dopo la cena poter giocare a battaglia navale con mio padre, o andare a veglia dai vicini, biscotti fatti in casa e bicchierino di Tre Stelle, imitazione toscana del cognacchino.
Nulla era scontato e facile, il far west era il nostro, il confine tra i film e la nostra realtà, labile. Niente energia elettrica, solo luce a petrolio, niente telefono, urli da un campo all’altro, niente acquedotto, strada a sterro, bosco tutto intorno, miniera poco lontana. Vitelli, maiali, galline, faraone e conigli. Un cane che parava i maiali, faceva la guardia e mangiava gli avanzi, un numero variabile di gatti che mangiavano topi, lucertole, bisce.
Mio padre era un seguace del progresso, delle moderne tecniche, ma all’occorrenza non disdegnava provare le vecchie. Una mattina era stato convocato un rabdomante. Impugnando il suo ramo a forcella si era mosso per ore finchè a un certo punto aveva iniziato a tremare ed il ramo aveva puntato verso terra. Qualche mese più tardi in quel punto sarebbe sorta una pompa a vento con la girante tonda allora comune in Maremma. Nel bosco un deposito per l’acqua che per caduta arrivava al nostro ed ai due poderi vicini.
Film ed immagini, le foto di mio padre, i miei sogni stessi, erano in bianco e nero, e se ripenso alla luce invernale, fredda, alle nuvole che correvano dalle montagne verso il mare, penso in bianco e nero. Anni più tardi avrei cercato di mettere quella luce e quei sogni nelle foto che scattavo. Ma quel Natale di cinquanta anni fa avevo per la prima volta espresso un desiderio ad alta voce, talmente grande da reputarlo impossibile. Non so cosa mi fosse preso, forse a 9 anni iniziavo ad uscire dalla prima infanzia, forse avevo visto i giochi nuovi nella vetrina del negozio-emporio che mia madre gestiva in paese. Forse iniziava allora una mia particolare forma di delirio che produceva fatti reali improbabili da convinzioni oniriche e desideri forti.
È accaduto molte volte, per esempio ricordo gli anni trascorsi a replicare sicuro a chi mi parlava del servizio di leva obbligatorio, “fare il militare”, che io non l’avrei fatto, perchè non volevo limitazioni alla mia libertà, nessuno mi avrebbe obbligato. Ne ero assolutamente sicuro, per me era assurdo, quindi il problema non esisteva. Come andare in chiesa e ascoltare un prete, ripetere preghiere a memoria, inginocchiarsi e quant’altro. Ne ero sicuro, e ricordo ancora lo sgomento di mia madre e mio padre quando mi arrivò il congedo per sovrannumero firmato dal colonnello Spezzacatene, un nome, un destino.
Ma queste sono altre storie. Quel Natale del ’65 dissi che mi sarebbe tanto piaciuto un trenino col plastico, la stazione, le gallerie.Forse era anche il desiderio di andare in treno, non c’ero mai stato. Mia madre scosse la testa e si limitò a dire che non ero stato così buono da meritare un dono così grande. Mio padre non disse niente. Bovisio diceva poco, lavorava molto però. Il problema non era neppure economico, mia madre col negozio poteva averlo il trenino, ma era pratico, senza corrente elettrica non aveva senso avere un trenino elettrico.
In quei giorni di dicembre con mia sorella andammo a fare la borraccina nel bosco, poi montammo il nostro presepe con le statuine di coccio anni ’50, bellissime, piccole, vive, piacere nel metterle, spostarle, avvicinare i Re Magi, commentare se fosse migliore il bue del presepe o quello vero della stalla che, troppo grande, non sarebbe entrato in quella capanna. Ma io rimuginavo il trenino, lo pensavo, e anche se non dicevo niente, lo si capiva. Ma alla vigilia ero quasi convinto, era probabile averlo quanto la luce elettrica che regolarmente ci promettevano da anni i capi della DC e del PCI che si fermavano a salutarci.
Anni più tardi mia madre mi raccontò che mio padre era stato alzato fino alle ore piccole per montare su una grande tavola di compensato il plastico con la stazione, i binari, incroci, scambi, gallerie, treno merci e passeggeri. Al risveglio la mattina di Natale ero talmente felice e stupito che non mi riuscì dire niente per un bel po’. Ogni tanto li andavamo a guardare, io e mio padre, quei trenini, si discuteva delle motrici e dei vagoni, si immaginavano sbucare dalle gallerie, fermarsi alla stazione. L’anno successivo mi portò con se al nord ad una fiera, per la prima volta in treno, vero. Mi aveva regalato un paio dei suoi occhiali da sole e diceva agli altri che ero il suo segretario.
Quei trenini al podere non hanno mai corso, qualche anno più tardi si smontarono e donarono a dei bimbi di campagna più piccoli e poveri, e lì finalmente hanno sferragliato.
La corrente elettrica nel nostro, e nei due poderi vicini dell’Ente Maremma, è arrivata nel 1973, quando consumavo i vinili, nel giradischi a pile, di Jimy Hendrix e Rolling Stones, e non è arrivata per gli impegni della DC o del PCI , ma per una nuova legge della Comunità Europea. Come aveva promesso da sempre mio padre quella prima notte lasciammo accese tutte le luci.
pubblicato su Frontiere News 28 dicembre 2015
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