Maremma libertaria n 25

 

Appello all’insurrezione delle coscienze- Maremma Libertaria luglio 2018

È un tempo difficile, cupo, per non dire che verranno tempi ancora peggiori. Sta tracimando odio, rancore, insofferenza, ma soprattutto paura. Paura di non saper che fare, paura di non aver più ripari, politici metaforici e pratici. Paura di esser rimasti appiedati e sorpassati dal “popolo” in cui ci piaceva immaginare di rispecchiarci, una volta. Non è dura, di più. Sarà pure peggio, temiamo. Altro che corsa a stringere le mani a Salvini, ci parrà ragionevole parte delle nefandezze. Per evitare nefandezze peggiori, diremo. Eh no, è in questi momenti che bisogna fare veramente appello a tutta la nostra coscienza e forza, poca o tanta che sia. Costruiamo alleanze con i sindacalisti dei braccianti neri, con i ragazzi dei call center, con le donne, con i senza lavoro, ma soprattutto con le persone intelligenti e sensibili che sono ovunque. I nostri principi non sono negoziabili, né ora né mai. Sempre sono libertà, uguaglianza, fratellanza. Questo abbiamo, questo dobbiamo essere, questo saremo, perché anche se ci cacceranno sotto, siamo semi,germoglieremo sotto nuove albe. Le uniche battaglie perse sono quelle che non si combattono. Tempo verrà.


(Manciano, 1944)

12 dicembre
La strage che cambiò le nostre vite, rubandoci il futuro
Continua a leggere http://www.carmillaonline.com/2015/12/15/un-granello-di-sabbia4/
e questo http://ilmanifesto.info/storia/pietro-valpreda-e-la-cronaca-vera/

Bruno Vespa ( sì, era già al tg 1 ) quella sera annunciò che Valpreda era uno dei colpevoli. E tutta la stampa, tutta, sposò entusiasta le veline della questura, le veline del ” vecchio” questore Guida, già direttore fascista del carcere di Ventotene, e del “moderno” commissario Calabresi, che si spacciava “amico” di Pinelli, che dal quarto piano di quella questura volò. Alla vedova di Pinelli, avvisata della morte dai giornalisti,che gli telefonò per sapere come mai non si fosse dato neppure pena di avvisarla,Calabresi rispose “sa, signora, avevo molto da fare”. A leggere oggi i libri di Camilla Cederna, ti arrabbi ancora più di allora. Perchè capisci che il meccanismo, la stampa, il potere e i suoi servi, sono rimasti uguali. Perchè Pinelli non ha avuto nessuna giustizia. Perchè la Cederna non è ricordata a Milano,nè la borghesia nè altri ne parlano, perchè lei, borghese, non ebbe paura di cercare la verità. A margine invece, noto l’avanzare della causa di beatificazione del commissario Calabresi, e la carriera di suo figlio,  direttore di “Repubblica”. Auguri.

Se uno studiato ti chiama signore, mettiti col culo a muro
Renato Prunetti

“…Ma questo non vale per chi il mare lo affronta dal porto di Piombino. Se alle spalle hai una costa sormontata dalle fauci delle acciaierie, di fronte si staglia l’irritante cartolina dell’arcipelago. E se vuoi raccontare una storia, e scrivere un romanzo, il tuo navigare incrocia tanti sassi ferrosi, mentre l’azzurro del cielo è sporcato dagli scarichi delle ciminiere. E quando quelle ciminiere hanno smesso di fumare, ad offuscare il cielo è il loro ricordo, il luogo in cui la tua storia è in gestazione, non è più la silenziosa solitudine del mare aperto, ma il crogiuolo rumoroso di un porto industriale.
Per questo motivo 108 metri. The new working class hero (edito da Laterza e già andato in ristampa) l’ultima fatica letteraria di Alberto Prunetti, non è solo un romanzo o un’epica stracciona. È piuttosto un ibrido, una «narrazione working class» in cui luoghi, stili, forme, idiomi e immiginari si mescolano fino a trarre fuori il lettore dalla forzata solitudine della lettura.
E quando, stremato dagli intrighi che la sorte e gli dèi frappongono al suo cammino, decide di tornare back to Iron Town, ad aspettarlo c’è lo stesso devastante virus che ha colpito il lavoro oltremanica. L’acciaieria, sminuita, ridotta, venduta agli ultimi avventori della globalizzazione, la forma di vita nella quale era cresciuto e nella quale era radicato, è in un declino inarrestabile. Un viaggio di ritorno impossibile quello di Alberto

No, impossibile. Perché si può ancora raccontare la storia di questa sconfitta. Ed è con la forma romanzo che 108 metri riscatta i fallimenti dell’epica stracciona di Alberto. Innanzitutto nei personaggi working class: il piratesco cuoco John Silver e il suo tarantolato aiutante Rodrigo, il coltissimo e obeso addetto alla pulizia dei cessi di un mall di nome Brian, e poi il supervisor dal volto umano Ross, che si avvale delle doti letterarie del protagonista per recapitare improbabili reclami alle multinazionali del preservativo, oppure ancora l’attore shakespeariano-inserviente della mensa Gerald, Ian, Fatty-boy. Tutti personaggi, al limite tra le lyrics degli Smiths e la penna di Irvine Welsh, dotati di una loro «grazia rude» dai quali il protagonista apprende qualcosa, di cui fa tesoro, archivio, restutuendoci un mondo vitale, non ancora fagocitato dall’Entità. In tutti questi incontri il dono offerto da Alberto ai propri interlocutori è quell’inossidabile tassello di realtà prodotto in serie dagli operai delle acciaierie di Piombino: quei binari di 108 metri, più lunghi del glorioso Old Trafford, sui quali viaggiano i treni del globo terracqueo. Il romanzo subentra al naufragio dell’epica stracciona laddove Alberto ripercorre le origini di quell’insensata odissea britannica, raccontando un’adolescenza maremmano-labronica con la stessa incazzata malinconia di una canzone di Bobo Rondelli.
E tuttavia, anche se canta un’epica stracciona, l’epica di una sconfitta, Alberto ha anche un po’ vinto. Non solo perché le metafore lo hanno portato lontano dal destino dell’altoforno ma anche, e soprattutto, perché le metafore gli permetteranno di fare circolare questa storia, di aggiungere «una minuta proteina di quel codice che avrebbe rotto le catene della sopraffazione».
Di essere padre della narrazione, di fare il padre, come il suo padre-operaio. 108 metri è in questo senso un esplicito passaggio di consegne rivolto direttamente alla coscienza civile dei lettori; un passaggio contenuto tutto nelle parole rabbiose dell’ex-operaio Quattr’etti: «E ricorda bene anche te, che sai trovà a modino le parole e hai studiato le metafore e le sai misurà col calibro, ricorda che quel ferro t’ha sfamato e t’ha fatto studià. Càntagliele sode e vedi di raccontalla per le rime la nostra storia… Ora tocca a voi doventà padri».
(Il Lavoro culturale)
il lavoro culturale ha pubblicato l’incipit di 108 metri (lo potete leggere qui) e una recensione collettiva al precedente Amianto di Alberto Prunetti (la potete leggere qui).
Se avete letto Amianto di Alberto non mancate 108 metri, un buon corroborante contro la depressione (Stefano)La classe operaia è andata in paradiso “Lo studente li’ fuori mi ha detto, che noi entriamo qui dentro di giorno quando e’ buio e usciamo quando di sera e’ buio. Ma che vita e’ la nostra?!? E noi via, che andiamo avanti, avanti, avanti, avanti, per queste 4 lire vigliacche fino alla morte. Io propongo questa proposta, di lasciare subito il lavoro tutt e chi non lascia il lavoro subito adesso e’ un crumiro, e’ un faccia di merda!!!”

Immenso Gianmaria Volontè, ci hai lasciato il 6 dicembre del ’94 ma dopo tutti questi anni dimenticarti è impossibile


https://www.youtube.com/watch?time_continue=6&v=U08cTsDtZHY

La Corte dei miracoli di Siena ha finalmente riaperto nella sua sede storica presso l’ex manicomio !
nuovi corsi, nuovi concerti, nuovi film e nuove presentazioni…. sosteneteci in fitta schiera

Grosseto: il collettivo Bianciardi ha presentato: “Una città aperta al vento e ai forestieri”
“La negritudine comincia dall’Ombrone”. ( Luciano Bianciardi)
“In questo libro che viene presentato oggi a Grosseto ci sono anche io.
Come dicevo non ho mai scritto niente a cui tenga di più.
Inizia così: “Guardate questa bambina. Questa bambina sono io.

Ho la piuma in testa e delle foglie in mano. E’ il 5 settembre del 1976 e Democrazia Proletaria festeggia sul monte Amiata le elezioni del 20 giugno, dove ha preso l’1,5 per cento. Ben 6 deputati. Ma io queste cose non le so. So, però, che c’è babbo che ha dipinto di rosso la porta del PdUP a Grosseto, e a me questo nome, Pdup, mi sembra che rimbalzi.
Il Pdup sono davvero poche persone mentre il PCI ha preso quasi il 35% dei voti. Ma per me il Pdup rappresenta l’orizzonte unico e possibile di quella che è la Politica. Si chiama così. Ha la lettera maiuscola e la porta rossa, e poi la fanno mio padre e i suoi amici, che mi piacciono, perché mi raccontano la Favola di Mao Tse Tung.
La Politica la fanno i maschi, questo lo so, mentre mamma e le sue amiche fanno il Femminismo, che, forse, mi piace pure di più della Politica, perché si canta.
Oltre la Politica e il Femminismo c’è mia nonna che è il Mondo. Per mia nonna il Femminismo non esiste, la politica non ha la maiuscola, e si chiama solo PCI, perché ha avuto un fratello senatore, e ancora mi parla di quella volta nel 1946 quando l’hanno portata a Roma, per festeggiare la Repubblica, e suo fratello non le ha fatto aprire bocca. Ma per lei è un bel ricordo.
Poi c’è la città, che è Grosseto, ma per me è un perimetro che parte dal ponte della ferrovia e arriva a via Orcagna dove c’è la Terra, nonna la chiama così: campi coltivati dove si va in bicicletta dopo scuola per accudire i conigli e le galline, le rose, e c’è la cantina, con le botti e un odore di vino buono.
Così, riassumendo, negli anni Settanta, per una bambina, le Cose che Esistono sono il Femminismo, la Politica, il Mondo e la Città. Linus, in bagno, da leggere. Mentre ancora non ci sono i cartoni animati giapponesi e soprattutto ancora non c’è l’Eroina, che, lei non lo sa, cambierà di lì a poco il Mondo, il Femminismo e la Politica. Ma soprattutto la Città”.  (Vanessa Roghi )


E’ finalmente uscito” Piccola città, una storia comune di eroina” di Vanessa Roghi
Qui riportiamo la recensione uscita su Minima &Moralia col titolo “la marea sono loro” di Massimo Palma

«E il più delle volte diede fuori dagli argini e raggiunse con enormi masse d’acqua la mia città, dopo aver devastato la campagna circostante». È un frammento di Aprire il fuoco di Luciano Bianciardi ad aprire il sesto capitolo di Piccola città. Sono tanti gli eserghi del libro – a De Gregori, a Guccini che dà il titolo, a Nick Drake e Neil Young si affiancano Oreste del Buono, Natalia Ginzburg e infiniti altri. Si sa: gli eserghi sono spesso un testo nel testo, una rete di rimandi per il lettore, ma anche una rete di protezione per l’autore, perché gli offrono il gancio per sviluppare un tema nel capitolo che segue, o semplicemente l’allusione nascosta, il rimando, magari l’eco sonora generazionale.
Ma Bianciardi, in questo libro che racconta una storia di eroina lontana decenni, è un caso diverso. Non solo perché è un conterraneo dell’autrice, che ha indagato la Maremma, l’ha attraversata e ha provato a renderla migliore, disseminando libri con un furgone scassato chiamato Bibliobus. Né solo perché Bianciardi è modello ‘altissimo’ di una persona d’infinita coscienza che ciononostante non ce l’ha fatta(pure in un campo tutto altro delle dipendenze come l’alcool), nel senso che il libro definisce con pudore e amore personale e intellettuale. Bianciardi è diverso perché in quell’esergo profetizza, parlando di Maremma al passato, un’inondazione, un affogare dei campi, che arriva alla città e la fa annegare. In questa “storia comune”, prefigura il profeta con lo sguardo rivolto al passato di cui parlava Benjamin ispirato da Turgot. Racconta la rottura degli argini.
E qui di marea si parla – di una marea di eroina che affoga una generazione. Bianciardi muore nel ’71, senza vedere quella marea montare, quando l’eroina si affaccia in Italia e quindi anche a Grosseto, la piccola città sua e dell’autrice che nasce un anno dopo la sua morte, trova la città allagata e da bambina impara a vivere sott’acqua.
La metafora dell’allagamento è la traccia – una delle tante – che serve per orientarsi in una narrazione eccentrica. Perché Piccola città è un libro agile e grave, un libro di storia e un libro di memorie, tracciate da una storica che ricostruisce e da una figlia che si pone domande e le lascia finalmente su carta, è un memoriale e una guida. È un libro di ricordi – alcuni locali, di un’Italia provinciale come se ne danno infinite, altri così familiari a chiunque sia stato bimbo nei Settanta e negli Ottanta da scoprirsi a divorar le pagine in cerca di altre orme di quel passato inghiottito dalla ruota del tempo.E quindi alle analisi, alle indagini delle ragioni dell’inondazione e dell’enorme ignoranza sociale ma anche scientifica, e infine politica, di cosa implicassero quei derivati sintetici smerciati dalle industrie e prescritti dai medici nei Cinquanta, nei Sessanta, si affiancano le emozioni ricordate di cosa significasse essere bambini allora, nelle case “di sinistra”. Di cosa voleva dire poter leggere Arturo e Clementina, l’albo femminista con la tartaruga Clementina che se ne va di casa, via dall’oppressione di ninnoli e oggetti che l’amorevole Arturo le carica sul carapace.
Piccola città è un libro di domande personali e politiche,su quant’era politico quel personale di una cultura di emancipazione (che vuol dire liberarsi dalla mano del padrone) enorme, viva, solidale, che presto ha visto prosperare,proprio dentro di sé, l’eroina (e quindi il ritorno sotto la manus, perché decide tutto la sostanza, non te). Molte domande restano senza risposta, altre trovano suggerimenti e direzioni con la sobrietà di chi da trent’anni – da quando è stata messa di fronte, all’improvviso, già adolescente, al tema dell’eroina in casa – quelle domande se le pone. Ma sono domande che riguardano anche chi non ha visto tragedie domestiche e amicali, chi le ha solo sfiorate, chi le ha fiutate nello stigma sociale appiccicato al ‘drogato’, mostro sociale, figura mitica e persino buffa, oggi, nell’immaginario infantile condiviso, delle caramelle di droga offerte a tutti fuori scuola per insegnarti dipendenza. Piccola città riguarda chiunque c’era e chiunque ci sarà – perché l’eroina non se n’è “andata” neanche un po’, è solo diventata meno visibile, e riemerge nelle ondate di moral panic quando il politico sciacallo vuole la caccia all’uomo nero e l’altro politico si dimentica da dieci anni di convocare le conferenze nazionali sulla droga. Piccola città è un libro di voci, di citazioni, spesso e volentieri anonime, e la sua contromarea incalza, complica le cose, le risposte secche.
La domanda ad alta intensità che attraversa tutto il libro è semplice: perché proprio quella generazione si è data all’eroina? Perché quella generazione in lotta, dotata di ideali e di strumenti, coesa e sempre tesa, perché proprio quella, incerta se provare la rivoluzione subito o attendere ancora un po’, perché a un certo punto – ma è un punto ben preciso, 1972 mese più mese meno, e coincide con la nascita della bimba Vanessa che sarà storica, scrittrice, ma prima è l’adolescente che va a trovare il padre in carcere con le prime domande in mente – proprio quella generazione che voleva tutto, l’orda d’oro, sarà punteggiata del riflesso di plastica della siringa e del laccio, dall’ombra del cucchiaino sul comò, dei funerali disertati perché drogarsi è una vergogna e una scelta, e “se fai quella fine è perché l’hai voluto”? La tesi diffusa che Roghi discute è quella che attribuisce molte delle colpe a quell’operazione derubricata dai media, ma prima ancora dalla Cia, come operazione Bluemoon.
Spietata quanto basta, la Cia si mise in testa che il protagonismo politico delle generazioni post-68 si poteva debellare con un’ondata di eroina senza pari. Perché se Marx aveva ben inquadrato quale fosse l’oppio dei popoli, non aveva certo previsto che i suoi nipoti politici potessero abbandonare la lotta per darsi a un oppiaceo.
E quindi – recita la tesi monocausale – ecco la ragione per cui un paese col “partito comunista più grande d’occidente”, con una falange a sinistra di quel partito che si allarga e osa sempre più, in un momento tesissimo dove pezzi di Stato collaborano attivamente a bombe e attentati (i magnifici anni Settanta), vede in un decennio svuotarsi del tutto o quasi la forza del movimento. Vede morire decine di migliaia, vede le siringhe ficcate in ogni albero di ogni parco, in città e in provincia, tra i poveri, tra i ricchi, tra i borghesi.
La tesi non piace a Roghi che la reputa non sbagliata (qualche indizio a favore esiste, e non è taciuto), ma univoca. Soprattutto, la tesi Bluemoon elude la domanda fondamentale, quella semplice che ha posto idealmente la ragazzina al padre quando ha dovuto scoprire tutto (che c’è un eroinomane in famiglia, che per farsi spaccia, che lunghi silenzi, epatiti e sparizioni hanno tutte, qui sì, un’unica causa). E la domanda è: perché tu, proprio tu che insomma avevi tutto – mettiamoci anche me dentro al tutto –, tu che ne sapevi gli effetti, che eri grandeormai, hai iniziato? Che bisogno, meglio che desiderio ha incrociato l’eroina? La domanda vale per tanti. Varrebbe pure per quel cronista di Repubblica, Carlo Rivolta, citato da Roghi e raccontato da un bel libro anni fa (L’Aspra stagione di Favale e De Lorenzis), che alla fine dei Settanta seguì il movimento e le sue sfaccettature, anche l’eroina, certo, e che nel 1982 morì, poco più che trentenne, lui cronista fenomenale, penna arguta, mente impegnata. E morì d’eroina.
Roghi se lo chiede per tutto il libro, insieme al lettore lontano ormai decenni da quella catastrofe generazionale, e ne riattiva la memoria, risensibilizza i margini bruciati di quei buchi neri personali. (Il mio – il tossico dolcissimo al piano terra del palazzo borghese di mia nonna, che “ieri notte” – mi spiegava mamma – “ha sfasciato il portone e stamattina ha chiesto scusa, poverino”. Finché poi un giorno è morto. “Muoiono tutti, loro”).
Apparentemente è successo: la marea d’eroina li ha ammazzati tutti, loro. O li ha riempiti di metadone, come da nuove disposizioni di legge del 1975, durante un dibattito ricostruito benissimo come duro e rapido – ma quante voci a dire, suggerire, magari sbagliando, Basaglia, Cancrini, Gervis –, perché ci si trovò a far fronte a un flagello (cui seguì un altro flagello, l’Aids, che gli era collegato).
Altri tempi. Ma di chi fu la ‘colpa’? Davvero il movimento cadde vittima di quel combinato disposto che fu la Legge Reale e l’operazione Bluemoon? Anche qui, usando la traccia sepolta nella sua infanzia sott’acqua, Roghi è scettica, vuole andare oltre la vittimizzazione, oltre la distinzione tra un soggetto di noi che si dicono prima eroi e poi vittime e la massiccia presenza di loro (loro la Cia, loro i potenti, loro lo Stato). Il problema, dice, è quello dell’esonero e della responsabilità non individuale, ma sociale, politica.
Attraverso aneddoti personali (il ‘capellone’ grossetano menato da militanti antichi perché capellone) e dibattiti d’epoca (sprangare o non sprangare gli spacciatori durante il festival di Parco Lambro, nel 1976?), Roghi mostra come anche gli altri loro creati da quel tic verbale e sociale che individua un soggetto anonimo, una terza plurale, pronto a colpirci, anche loro i tossici – i sempre più numerosi tossici del movimento che trovavano voce solo in assemblee marginali, o nelle lettere disperatissime su Lotta continua –, anche loro erano spiegati come“compagni che sbagliano”. Che rinunciavano a lottare per darsi al paradiso artificiale. Ma perché l’eroina diventa «il correlato oggettivo della perdita dell’impegno» (p. 129)? E perché su questa certezza si è radicato il pregiudizio che ha impedito di capire e di lottare meglio (e soprattutto di ridurre gli enormi danni)?
Un cenno di percorso è nel fornire un quadro sociale – non solo politico, non solo esistenziale (o anche artistico, à la Burroughs) – delle dipendenze. Bisogna cercare le radici dell’assenso all’eroina in quella stagione,di una patologia che si è diffusa a macchia d’olio – anche perché c’erano le condizioni, le cause materiali, c’era l’inondazione. E nelle trame sociali del vuoto di desiderio, nell’arresto del desiderio per tanti sembra riconoscersi un’eziologia possibile. Quella generazione – racconta il libro in uno dei suoi passaggi più bislacchi e più belli, chiamando in causa un must generazionale di allora come l’I-Ching – si era affacciata al possesso grande. A un percorso al cui termine poteva esserci una stasi serena, il disporre di beni in quantità, ma soprattutto del modo corretto di gestirli. Una società affluente, che s’immaginava il benessere nel modo più alto possibile, finisce per distogliere lo sguardo da quel quadro per affacciarlo alle vene. Scopre che bucarsi è bello, che l’eroina è un piacere immenso – ma non le prime volte, dov’è vomito e nausea, né le ultime, dov’è ricerca di un passato sepolto, ma quella serie infinitamente breve di seconde volte, incalcolabili, non riattivabili, di cui non si ha memoria certa.
L’eroina, spiega un testimone che prende il nome à la Paz di ‘Zanardi’, è una sostanza spaziale. Crea uno spazio virtuale enorme tutto tuo, una geografia verticale di possibilità interne e immense dentro al tuo angolino. Solo che in pochi mesi quel cantuccio diventa spazio sociale immondo, diventa marginalizzazione in una società di cui sei il fantasma, che ti vieta la parola prima che tu possa articolare risposte (può accadere, racconta Roghi usando voci tra infinite testimonianze, che con l’eroina magari ci si conviva). In quel lungo momento sociale – prima, molto prima del riflusso – l’eroina fu ricerca di uno spazio di immaginazione e di ottundimento dentro un’apnea dei desideri sociali. E, dopo, appena dopo, divenne dipendenza (“dà una dipendenza l’eroina paurosa”, dice l’ovvio che ovvio non era, la voce anonima di Zanardi). Così, chi verbalizzava il buco provando a dire la paura, la ripetizione del proprio scacco in quello spazio solo potenziale aperto dagli aghi, scopriva che la risposta era un silenzio, lo stigma, l’accusa, un cantuccio asociale, perché dagli all’untore, perché l’eroina contagia. E quindi nessun ascolto. Solo un loro. Loro “li dovevano arrestare”. Loro “ti dovevano guarire”. Lo suggerisce Vanessa Roghi: la collosa Lilly di Venditti in presa diretta sul reale – era il 1975 – metteva a fuoco non tanto la piaga sociale, ma la nostra voglia di scacco nel capire. Il nostro non voler capire, quando l’eroina è una storia comune, non di eroi e vittime, ma ordinaria e condivisa da più generazioni. E invece fateci caso: quella marea sono sempre loro.”
Vanessa, grazie per aver rotto la cappa di piombo sulla generazione scomparsa, ed aver raccontato questa storia nonostante tutto e tutti (Erasmo)

Stella, i poeti non muoiono, vanno solo un po’ più in là. ( Maremma Libertaria perde una sorella, una compagna, una musicista, una poetessa. Ma ti portiamo in noi, con noi, sempre)
Regina degli hippies di montagna, sax dell’anima scura di notti passate a sognare albe di palingenesi, combattente indomita dei sogni collettivi mai appesi a nessun chiodo, ma lasciati pascolare tra le nuvole che dai tuoi poggi scendevano verso il mare. Anima in viaggio tra Castelnuovo Val di Cecina, Bologna e Massa di Maremma, sempre pronta a imbracciare i tuoi strumenti musicali che insegnavi orgogliosa alle generazioni a venire.
Stella, i poeti non muoiono, vanno solo un po’ più in là.
“Io non posso prometterti / che sarò sempre vicina al tuo corpo /
al tuo sogno/ ma certo non esiste / angolo del mondo/ in cui io
non possa pensarti”

( “Quante volte ti ho scritto dei versi”- Giorni e notti sulla terra- Effigi ed- Stella Cappellini )


“Siamo noi a far ricca la terra
Noi che sopportiamo
La malattia del sonno e la malaria
Noi mandiamo al raccolto cotone, riso e grano,
Noi piantiamo il mais
Su tutto l’altopiano.
Noi penetriamo foreste, coltiviamo savane,
Le nostre braccia arrivano
Ogni giorno più lontane.
Da noi vengono i tesori alla terra carpiti,
Con che poi tutti gli altri
Restano favoriti.

E siamo noi a far bella la luna
Con la nostra vita
Coperta di stracci e di sassi di vetro.
Quella vita che gli altri ci respingono indietro
Come un insulto,
Come un ragno nella stanza.
Ma riprendiamola un mano, riprendiamola intera,
Riprendiamoci la vita,
La terra, la luna e l’abbondanza”.
https://youtu.be/xfhK6ehM7v0
Grazie Claudio Lolli

Fresco di stampa, contento di aver partecipato con le mie foto d’archivio….

Memoria storica. Mal Aria Contro cartoline, bandiere blu e arancioni, per la distruzione degli agriturismi. A troncamacchioni sulle macerie dell’esistenza. Libertà, cinghialanza, anarchia !

“Dichiarandoci anarchici proclamiamo inanzi tutto che rinunciamo a trattare gli altri come non vorremo essere trattati noi da loro; di non tollerare più la disuguaglianza che permetterebbe ad alcuni di esercitare la propria forza astuzia o abilità in maniera odiosa. Ma l’uguaglianza in tutto- sinonimo di equità- è la stessa anarchia ”
Petr. A. Kropotkin La morale anarchica
scarica qui gratis il libro
http://stradebianchelibri.weebly.com/millelirepersempre.html

L’anarchia spiegata a mia figlia : il nuovo libro di Pippo Guerrieri, BFS edizioni qui in free download e streaming
https://archive.org/details/LanarchiaSpiegataAMiaFiglia
Io non credo nei partiti. Ma non perché siano stati occupati da persone disoneste. Io non credo nei partiti perché non credo nella delega. […] Non sono un comunista. Io sono anarchico. Non mi interessa che il popolo vigili sull’amministrazione pubblica. Io non credo che il popolo debba essere amministrato da qualcuno. Io voglio il superamento di questa democrazia, non che venga amministrata decentemente. Questo era il dibattito negli anni ’60 rispetto ai manicomi. Qualcuno voleva umanizzarli, qualcun altro cancellarli. Si umanizza un’istituzione disumana solo cancellandola. ”
( Ascanio Celestini )
https://www.youtube.com/watch?v=m4Ze55-ygRg

le foto di questo numero sono di Stefano Pacini, facenti parte del progetto fotografico “Noi sogniamo il mondo “, Tano D’Amico o di autori non identificati che ringraziamo anticipatamente
Link utili
www.stefanopacini.org
www.umanitanova.org
www.lavoroculturale.org
www.radiomaremmarossa.it
www.carmillaonline.com
http://www.sicilialibertaria.it/
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femminismo-a-sud.noblogs.org/
anarresinfo.noblogs.org
http://www.anarca-bolo.ch
Maremma Libertaria Esce quando può e se e come gli pare. Non costa niente, non consuma carta e non inquina, se non le vostre menti. Vive nei nostri pensieri, perchè le idee e le rivoluzioni non si fanno arrestare, si diffonde nell’aere se lo inoltrate a raggera. Cerca di cestinare le cartoline stucchevoli di una terra di butteri e spiagge da bandiere blu, che la Terra è nostra e la dobbiamo difendere! Cerca di rompere la cappa d’ipocrisia e dare voce a chi non l’ha, rinfrescando anche la memoria storica, che senza non si va da nessuna parte. Più o meno questo è il Numero 25 del 21 dicembre 2018. Maremma Libertaria può essere accresciuta in corso d’opera ed inoltro da tutti noi, a piacimento, fermo restando l’antagonismo , l’antifascismo e la non censura dei suoi contenuti.
In Redazione, tra i cinghiali nei boschi dell’alta maremma, Erasmo da Mucini, Ulisse dalle Rocche, il fantasma della miniera, il subcomandante capraio, Alberto da Scarlino, Alessandro da Grosseto, Antonello dalla Tuscia, Luciana da Pomonte, complici vari , ribelli di passaggio, maremmani emigrati a Barcelona e Cagliari
No copyright, No dinero, ma nel caso idee, scritti, foto, solidarietà e un bicchiere di rosso.
My way Sid Vicious !
http://youtu.be/HD0eb0tDjIk

Nostra patria il mondo intero, nostra legge la Libertà, ed un pensiero Ribelle in cuor ci sta
(Pietro Gori)
http://youtu.be/_KVRd4iny8E

Potranno tagliare tutti i fiori, ma non riusciranno a fermare la Primavera
(Pablo Neruda)
http://youtu.be/wEy-PDPHhEI
(Victor Jara canta Neruda)

Sempre, comunque e dovunque : Libertà per tutti i compagni arrestati !– Fori i compagni dalle galere !-Libertad para todos los presos ! – liberdade para companheiros presos! -comrades preso askatasuna!- liberté pour les camarades emprisonnés!-freedom for imprisoned comrades !- Freiheit für inhaftierte Genossen!- ελευθερία για φυλακισμένους συντρόφους ! – الحرية لرفاق

I buoni propositi…..
La prima cosa che fecero nel 1871 i rivoluzionari a Parigi, dopo aver proclamato la Comune, fu quella di fucilare tutti gli orologi, mentre a Barcelona nel 1936 toccò a statue e mummie religiose.
Il tentativo era comunque quello di riprendere in mano la propria vita, il tempo,la memoria, senza padroni, orari e castigatori divini. Consci che il lavoro salariato imposto dai padroni era una gabbia mortale al pari della morale imposta dalla chiesa. Bakunin in Dio e lo Stato scriveva :” Dio appare , l’uomo si annienta, e più la divinità si fa grande, più l’umanità si fa miserabile. Ecco la storia di tutte le religioni . Ecco l’ effetto di tutte le ispirazioni e di tutte le legislazioni divine. Nella storia ,il nome di Dio è la terribile vera clava con la quale tutti gli uomini divinamente ispirati ,i “grandi geni virtuosi”, hanno abbattuto la libertà ,la dignità, la ragione e la prosperità degli uomini”.
Per cui ha ben poco peso e significato il nostro occidentale calendario papale che scandisce tempi e orari che non ci appartengono. Duemila19 o millequattrocento e qualcosa, anno della scimmmia o del cinghiale, l’unico tempo che riconosciamo è quello liberato dalla schiavitù dell’uomo sull’uomo, quello del naturale fluire delle stagioni non più piegate da uno “sviluppo” forsennato e distruttivo. Quindi, ora e sempre, dalla Maremma Libertaria che fu di Luciano Bianciardi, il nostro pensiero e solidarietà attiva va a tutti i fratelli e compagni incarcerati, ristretti, perseguitati, costretti alla clandestinità , alla fame, alla fuga, a vivere lontani dai propri cari e dal proprio paese, va a tutti coloro che non chinano la testa e non smettono di sognare, lottare, ribellarsi, per una società senza sfruttati, per una comunità di liberi, uguali, solidali.
Sognando l’anarchia, dalle colline metallifere, la redazione sparsa per il mondo intero
Maremma Libertaria