Tano D'Amico 75. Fotografia e memoria sociale

Tano D’Amico è nato a Filicudi nel 1942. Da quarant’anni la fotografia è parte della sua storia che in questa intervista è raccontata in profondità.
L’ha realizzata Stefano Pacini per il lavoro culturale. Questo incontro nasce a margine dell’invito rivolto a Tano d’Amico dall’Associazione 14 IMAGINE associazione di fotografia che il prossimo 7 aprile continuerà la sua rassegna dedicata al fotogiornalismo con il fotoreporter Davide Monteleone e lo scrittore Paolo di Paolo.
Un piccolo estratto dell’intervista era stato pubblicato su Maremma Libertaria. Ne proponiamo, in omaggio ai suoi settantacinque anni, la versione completa.
Tano D'amico
 

La vita, la partenza, la caserma

Stefano Pacini: A quindici anni mi sono innamorato della fotografia, Capa, Cartier Bresson, Koudelka, ma tra le prime foto in bianco e nero che mi colpirono moltissimo c’erano le tue, perché compravo «Lotta Continua». Vedevo queste foto incredibili con persone che guardavano dritto in macchina, e in quegli sguardi leggevo la febbre del tempo. La loro storia in faccia, erano bellissime. Ho ritrovato le tue foto ovunque, anche in Portogallo, nel ’75. Ci siamo sfiorati e incrociati più volte ma, scusa la domanda banale, tu come hai cominciato a fotografare, e perché?
Tanto D’Amico: Ognuno penso abbia i suoi motivi. Ho sempre amato le immagini ma ho sempre fatto tutt’altro. A scuola, da ragazzo, ma secondo me un destino esiste. Ovunque andassi, io non avevo neppure una macchina fotografica, fotografavo con le macchine degli altri, c’era questa cosa che “a lui le foto gli vengono bene”. Anche quando ero soldato avevo fatto delle foto, perché mio padre (completamente assente ma quella volta no) mi regalò, avrò avuto nove anni, una Ferrania Rondine. Quindi conoscevo un po’ i meccanismi, ma non pensavo di fare il fotografo. Forse ha inciso, io l’avventura la racconto così, essere uno dei primi fermati del mio periodo per le lotte. In quel periodo la polizia aveva ucciso con i nuovi jeepponi blindati durante un carosello un giovane.
S.P.: Ardizzone a Milano nel ’61 durante la crisi dei missili a Cuba?
T. D. – Sì. Io vivevo a Milano allora quando vedo questi furgoni mi metto a urlare «Assassini!» e «Ardizzone!» Dietro c’era la manifestazione, alcuni urlarono come me, ma la polizia si fermò, scesero e ci portarono via: pensai “ora ci ammazzano”. Invece poi andò così: all’epoca avevo il rinvio del servizio di leva per l’università, ma allora non me lo rinnovarono e in più mi fecero fare il militare con i differenziati. Quelli che non sapevano leggere e scrivere, quelli che erano stati in carcere, quelli che venivano dall’Alto Adige e parlavano solo tedesco.

S.P.: Quindi eri nei battaglioni punitivi?
T. D.: Non so come si chiamassero. Non ci frustavano, ma avevano altri mezzi per angariarci: la fame, non era Mathausen ma davano meno di quanto tu avessi bisogno. E la sete. Sì, perché non avevamo paura della prigione, io mi portavo un libro e pensavo “passerà”. Ma loro davano l’acqua dai rubinetti dieci minuti al giorno, mai nello stesso orario, spesso di notte. Eri costretto a dormire con l’orecchio teso.
Quando scorreva l’acqua tu schizzavi con la borraccia in mano sia per bere sia per prendere più acqua possibile. Calpestando tutto e tutti, e questo veniva fatto per spezzare le amicizie che si creavano. Io venivo dal profondo Sud e mi avevano messo insieme a quelli dell’Alto Adige per mettermi in difficoltà. Credo però che più le difficoltà sono atroci più si creano amicizie insospettabili. Durante una lite uno dette del ladro all’altro. Questo si mise a piangere, inconsolabile, e noi gli chiedemmo «Perché piangi per questo?» e lui rispose «Perché faccio il ladro nella vita». Sono cose che ti spaccano.
Vedevi la vita degli altri, e anche la mia. Tutto questo mi ha cambiato, erano stati quindici mesi non ordinari e io ne ero fiero. A chi non sapeva leggere e scrivere davano i lavori più pesanti, era un gioco mortale. Sotto le armi potevi fare dei reclami ma solo a nome tuo, quello che volevi, ma che riguardasse te. Allora io che ero il più “pulito” di loro, aspettavo al bar il capitano e facevo reclami. Cercavo di difendere quelli che non sapevano leggere e scrivere, così poi finivo per essere odiato da tutti.
I primi mesi tentarono di spezzarmi aizzando tutti contro di me anche per la questione dell’acqua da bere. Ché il vino, in compenso, c’era a volontà ma non lo bevevamo perché aumentava la sete. Chiesi ci portassero anche le bottiglie d’acqua e il capitano mi destinò alle marce forzate e a controllare la carne per duemila persone. Poi non era possibile, ne facevano sparire molta, invece le marce mi sono servite, sono diventato atletico, quando ci caricava la polizia e correvo non mi prendevano più.
S.P.: Il tuo impegno era comunque collegato alla fotografia?
T. D.: No, ancora non c’entra niente la fotografia. Quando tornai a Milano non potevo nemmeno raccontare quello che avevo vissuto, ci avrei fatto la figura dell’imbecille. I miei amici di leva raccontavano di quando scappavano da un buco nella rete, se l’avessimo fatto noi ci avrebbero ucciso. Obbligavano altri militari a fare la guardia esterna a noi che facevamo la guardia interna. Quelli ci odiavano, erano chiamati da altre caserme, noi eravamo gli avanzi di galera. Comunque si erano creati dei rapporti così saldi tra noi che se ci avessero chiesto di restare avremmo detto sì. Erano ormai la mia famiglia. L’ultima tortura fu che mi mandarono via l’ultimo giorno. Vedevi partire tutti. Pianti della madonna, perché sapevi che non li trovavi più questi qua. Sarebbero tornati nelle grinfie del carcere, anch’io pensavo “chissà che cazzo di vita farò”.
Tano D'Amico
S.P.: Ma allora quando hai iniziato con la fotografia?
T. D.: Ero tornato per Natale e dissi a mia madre che sarei ripartito per capodanno. Al “perché?” di mia madre dissi che dovevo lavorare, non potevo dirle quel che era successo, e cioè di essere stato lasciato. Né quanto fossi cambiato in questi quindici mesi. E lei: «Dove vai?» risposi: «Roma».
Una metropoli, non potevo dirle una città vicina. Andai a Roma e non avevo né arte né parte, facevo i lavori più umili, tanti, andai in un teatro leggendario, il Beat ’72, non avevo mai i soldi per entrare, ma avevo la faccia pulita. Mi misero ad amministrare gli incassi. Dovevi mettere i soldi in un grande foulard, a seconda delle persone, come la torta, si facevano le parti. C’erano Rava, Schiano, jazzisti famosi adesso, facevo di tutto, foto, piccoli testi.
S. P.: Quindi hai cominciato al Beat ’72?
T. D.: Non esattamente. C’era da fare una marea di cose, e quelle più difficili le davano a me, come mettere a dormire i musicisti, magari i neri di Chicago che i borghesi li immaginavano con i tamburi e ne erano terrorizzati. Mi facevano fare di tutto. Intanto arriva il ’68, faccio turni notturni negli uffici. Ero bravo anche a dire perché non andassero bene certe foto, mentre i miei compagni si compiacevano di essere sulle prime pagine dei giornali. Durante le assemblee, a un certo punto, se esiste un destino, hanno iniziato a dire “le foto le fa Tano”. Io però mi rifiutavo: perché nella mia vita da pezzente potevo seguire le cose dal loro nascere al loro morire.

Verso la fotografia

S. P.: Diventi fotografo.
T. D.: Ancora no, non potevo, non volevo. Tanto che sono l’unica persona al mondo che ha fatto scatenare i servizi d’ordine non perché aveva fatto le foto, ma perché non le aveva fatte [risate]. Ero in piazzale Clodio. Era la prima volta che Valpreda compariva davanti ai giudici, ero in fila con tutti gli altri, arrivano delle persone di Potere Operaio e mi dicono: «Sei qui?! E perché non fai le foto?!»
Scoppia un casino. Gli dico che il giorno dopo sarei andato in Sardegna, e mi mandano affanculo. Arrivo a Porto Torres in nave, mi incammino a piedi, mi sento chiamare da un gruppo di ragazzi, gli avevano telefonato. Scattai delle foto che fecero da testata al giornale «Potere Operaio» del lunedì. Esiste un destino, si sparge la voce, poi vado a Gela che lì stavano arrestando tutti, e faccio un lavoro sull’assenza, su questi bimbi che si ritrovavano in piazza da soli a chiedersi dove sono gli altri. Vengo a sapere che sta per uscire un nuovo giornale.
S. P.: Lotta Continua, quotidiano, che iniziò nell’aprile del ’72.
T. D.: Sì, mi dicono di andare da Adriano Sofri, che avevo già conosciuto, per portargli queste foto. Il numero due di «Lotta Continua» esce con una foto in notturna dei bimbi di Gela. Mi potevo permettere di fare le foto a luce ambiente senza flash perché non avevo fretta, ero come Vivian Mayer. Non avevo fretta, cercavo la perfezione. Il fuoco sugli occhi dei bambini nel 90 mm. Il lavoro andò bene, e ricordo una cosa commovente, che quelli di «Potere Operaio» capirono che non ero né degli uni né degli altri, che ero un’altra cosa, e che dovevo essere pagato.
Era commovente il fatto che si riunissero per decidere quanto pagarmi, che avessi da mantenere un affitto, la cena, e potessi andare al cinema. Veniva fuori una bella somma che non mi hanno quasi mai dato, non li avevano. Era però commovente il fatto che dicessero: «Tano, non abbiamo soldi, ma ovunque andrai in Europa tu avrai un letto e un piatto di minestra». Ed è stato così. Ricordo le prime interviste che mi facevano i giornali di fotografia: «Ma come cazzo fai, a marzo eri in Irlanda, poi in Germania dagli emigranti siciliani».
S. P.: Ti davano da mangiare, da dormire, ti accompagnavano…
T. D.: Se io avessi dovuto fare da solo non ci sarei riuscito.
S.P.: A guardare quelle foto si vede una luce nei volti… e si legge anche la loro storia…
T. D.: C’è una foto che mi piace molto: dentro a delle baracche di emigrati italiani in Svizzera. In uno specchio si vede una parte della mia faccia mentre fotografo, e uno che si era lavato sotto quello specchio. Vedo che dice «Sei ancora qui?» e con l’asciugamano fa un gesto come per dire “Via, sciò!” Ho passato anni così, e una notte nel ’75 mi sono svegliato rendendomi conto che stavo vivendo una vita altrui, perché non avevo un amore, vivevo gli amori degli altri, vivevo nelle famiglie degli altri, ma non lavavo i piatti insieme a loro, sentivo il calore umano, ma non avevo una vita mia privata.
S.P.: Questo era comune a tantissimi di noi, avevamo solo una vita collettiva.
T. D.: Sì, esatto, ma era preoccupante, certo, una volta ogni tanto facevi l’amore.
S. P.: Tano, dal ’75 al 2015… esiste ancora una fotografia sociale?
T. D.: No. Così no. La fotografia in questi termini non esiste più. Mentre ai miei tempi c’è stato un matrimonio (io non ero un artista) con la scultura, con la pittura. Un matrimonio tra movimenti e immagini. Ora quel rapporto si è spezzato: lo sento anche io, non che avessi regole o capi, anche quando ho parlato di quella immagine occultata che poi è diventata famosa, non è che me l’avesse detto qualcuno, era la mia coscienza.
S.P.: Pensi che quel rapporto sia perduto per sempre?
T. D.: No. Penso che si possa riprendere, ma non è che lo posso riprendere io alla mia età. Spero che lo riprendano, che capiscano, ma dietro a tutte queste cose in cui siamo sommersi c’è che di fatto siamo senza immagine, l’umanità intera.
Tano D'Amico
S.P.: Siamo senza immagine perché siamo senza movimento.
T. D.: E viceversa, mi sembra di aver scritto qualche pensiero tra movimento e immagine, che sono fatti della stessa materia.
S.P.: Sì, sono fatti della stessa materia, quella dei sogni. E se non si sogna…
T. D.: Che poi erano affetti reali. Ancora ora con alcune persone che hanno fatto delle scelte diverse, quando le incontri le abbracci e senti che c’è qualcosa di perduto. Allora ci volevamo molto ma molto bene, ricordo che davo il massimo. Anche gli altri, in questi giornali, come «Lotta Continua», che non dimenticherò mai, abbiamo avuto dei litigi, scelte diverse. C’era tra noi però una fiducia pazzesca. Una volta Enrico Deaglio mi dette un assegno perché i braccianti di Empoli, tramite un avvocato anarchico, avevano chiesto aiuto, e mi chiese se ci potevo andare io. Erano soldi suoi, personali.
Il lavoro culturale: Un’altra domanda: hai scritto e detto del G8 di Genova e della carenza dell’immagine dal punto di vista fotografico, puoi riprendere qui la tua riflessione?
T. D.: Dei filmati ne hanno parlato tutti. Anni e anni hanno girato i filmati della morte di Carlo Giuliani, ma questi video non hanno saputo dare il contesto. Se uno ti porta una foto, un video, di una signora che percuote un uomo sulla testa con un tacco a spillo, tu pensi “che violenta, questa signora”, ma manca il contesto, che l’uomo aveva aggredito in un vicolo quella signora.
E così per Carlo, che lo presenti come vestito di nero, come un punkabbestia, che invece dalle domande fatte in giro era uno così mite che i cani gli andavano dietro. Invece lo inchiodi a quella figura nera: è un furto, nei suoi confronti, di contesto, e così hanno preparato il contesto per la magistratura per dire che i carabinieri hanno fatto un uso corretto delle armi da fuoco, anche per quegli orribili filmati.
Una delle prime cose che hanno fatto sempre gli artisti in ogni epoca è di fare le loro cose senza mandare mai in galera nessuno, perché c’è modo e modo di raccontare. Io per tutta la vita ho fatto foto a persone che commettevano reati, anche quella della ragazza col fazzoletto, che è la più gettonata, quanti reati sta commettendo? Si è mascherata il volto, sta resistendo fisicamente ai carabinieri, ma posso dire che non è mai comparsa davanti a un giudice, perché quella immagine echeggiava anche il contesto e la bellezza delle istanze della donna, per cui i giudici hanno detto “non apriamo quella porta”. Come l’altra immagine della donna che occupa le case e manda via la polizia.
Il lavoro culturale: Nel caso di Carlo Giuliani c’era anche una esigenza di documentazione rispetto a qualcosa che, come nel documentario La trappola, è poi servita per mettere in discussione tutta una serie di “verità” entrate nel senso comune: a partire dalla distanza tra Carlo e il defender dei carabinieri che dalle inquadrature passate sui media mainstream sembra vicinissimo e invece non lo è, ma anche molto altro.
S. P.: Forse il problema è che negli anni Settanta c’erano pochi fotografi, ora fotografano tutti…
T. D.: Credo ci siano altre ragioni. C’erano per esempio i giornali che avevano i loro fotografi assunti ed erano dozzine, ma non hanno denunce, ma lasciamo stare quest’aspetto. Io non mi sono mai impelagato in queste cose, qui siamo perdenti.
Non è che i carabinieri sono i tifosi dell’Inter o della Roma, sono i carabinieri della Repubblica, quindi sono cazzi. La vera distanza fra Carlo e il Defender non è convincente. Il mio gioco è un altro: quando dico “vince nell’immagine il più fine”… voglio dire: le molte volte che sono comparso davanti a un giudice, quando mi chiedeva di far vedere le fotografie, il giudice era molto colpito. Perché non si fa l’idea dei due o tre metri e nemmeno tu o io. Se il racconto dei carabinieri è più amabile del tuo, danno ragione ai carabinieri. Se il tuo racconto è venti volte più amabile del loro puoi sfangarla.