Maremma Libertaria n 8

Sommario : Genova, giustizia non è fatta – Fai , fai  e affini: molti di modi di vederla tra gli anarchici – Sovversivi: un ricordo di Paolo Braschi – La “dolce” Maremma – Franco Serantini, il passato che non passa – Intervista a David  Graeber – La Patagonia Rebelde -Contro ogni religione – Luciana Bellini – letti e visti per voi-  Fotografa contro : Ippolita Franciosi- Femminismo a sud –
 
Il re è nudo !
L’imperatore nudo che sfila tra due ali di folla acclamante, magicamente persuasa che sia vestito con abiti sontuosi, e il bambino che grida: il re è nudo!

In origine era il Partito. Una chiesa monolitica di osservanza moscovita. Poi, quando le rughe si trasformarono in crepe, voragini, divenne democratico di sinistra, poi democratico e basta che insomma, tutta questa sinistra avesse a essere la mano del diavolo….Adesso il fantasma di quello che fu, dilaniato dalle coltellate tra l’ombra del leader minimo D’Alema  e il capo dei boyscout rottamatori neoberlusconiani, offre, dal centro alla periferia, lo spettacolo del suo agonizzare tra le macerie. Il caso Siena è eclatante, la faida sulle rovine del monte dei fiaschi è diventato oggetto di fortunate inchieste nazionali. Ma anche in provincia non si scherza: ormai è un tutti contro tutti, mentre la nave affonda non suona l’orchestra ma, più prosaicamente, ci si litiga i salvagente. Comune commissariato anche a Gavorrano, faide a Follonica e Massa M. mentre scheletri di ecomostri turistici cominciano a decomporsi sotto il sole impietoso. Visitate maresì, visitate pian di mucini, il futuro è già alle nostre spalle…è l’ora di capirlo: il re è nudo, bisogna riprendere nelle nostre mani il nostro destino. Autorganizziamoci, autogestiamoci. Oggi in Spagna, domani in Italia !
( Murat)
 
 
 
 
 
 
 
http://youtu.be/jGGLr5RXcqE  Report sul monte dei fiaschi…
 
Genova, ingiustizia è fatta
 I migliori tra noi sono morti per noi / ed ecco che il loro sangue ritrova il nostro cuore
Paul Eluard
Genova, 11 anni dopo, niente scuse, nessuna giustizia, nessuna pace. I lamenti della stampa compiacente e asservita non possono nascondere la realtà di una sentenza che prescrive torture e ferite che non si possono rimarginare. Non faranno un giorno di galera i dirigenti falsi, autori di una repressione infame che ha spezzato gambe e anima ad una generazione di ragazzi. I peggiori scenari contro cui ci battevano a Genova si sono realizzati e l’incubo è sotto gli occhi di tutti. Nessun futuro, nessun lavoro, nessun diritto, nessuna giustizia. Di quali scuse va cianciando Manganelli ( in nomen omen ) ? Come fosse possibile una polizia non cane da guardia feroce del Potere, come fosse possibile non notare che questi democratici dirigenti per 11 anni non hanno avuto il minimo ripensamento della loro macelleria messicana alla Diaz e quant’altro, come fosse possibile non notare la carriera del loro capo, l’uomo senza onore, Di Gennaro, sotto qualsiasi governo. Abbiano almeno il buon gusto di tacere: hanno sempre avvallato tutto, dai calci in faccia al ragazzino quindicenne che faceva un sit in davanti alla questura, all’assassinio di Carlo,alla mattanza della Diaz , alle torture di Bolzaneto. Si stupiscono di non poter essere del tutto completamente impuniti, come al solito, ma, si sa, un po’ di maquillage democratico non guasta, tacita le coscienze dei benpensanti, delle anime belle, e non cambia la sostanza della storia, non intacca il cuore del potere. La storia insegna, scriveva Gramsci, ma non ha scolari. Guardiamo di studiare e di non dimenticare, per favore, che dirsi che Carlo è vivo e i morti sono loro, è autoconsolatorio. No, Genova non è stato un film, e ci sono diversi compagni che rischiano di marcire in galera per essersi battuti nelle strade in quel luglio di speranza. Libertà per tutti. Onore a Carlo Giuliani e a tutti i Ribelli
(Erasmo)

 
 
 
 
 
 
 
Fai, fai e affini : alcuni interventi sulla questione…
Della lotta armata e di alcuni imbecilli
Nel nostro paese la situazione politica e sociale mostra chiari segni di un’involuzione autoritaria su scala globale. Il dispiegarsi di politiche disciplinari in risposta alle questioni sociali è segno che il tempo dei compromessi, delle socialdemocrazie sta tramontando. Potremmo dover fare i conti con il rischio che si impongano regimi decisamente autoritari. La criminalizzazione dei movimenti sociali e degli anarchici, prepara il terreno e nuovi dispositivi repressivi: nuove leggi, nuovi procedimenti penali, una sempre più forte torsione delle normative vigenti, un sempre maggior controllo militare del territorio.
L’immediata gestione mediatica del mostruoso attentato di Brindisi la dice lunga su quali sono le intenzioni dell’oligarchia al potere. Un atto vile, di terrorismo indiscriminato, contro delle giovani donne, antisociale e criminale, viene tranquillamente assimilato ad episodi di lotta armata, magari con origini greche o con contorno mafioso, con l’obiettivo palese della realizzazione dell’unità di tutti gli schieramenti in difesa dello Stato, un’unità che abbiamo visto all’opera negli anni della solidarietà nazionale, delle leggi speciali, dell’arretramento sociale e culturale del paese.
Anche il ferimento dell’AD di Ansaldo nucleare e la rivendicazione inviata al Corsera dal nucleo “Olga” della FAInformale dimostrano come azione e comunicazione si intreccino e si confondano in un gioco di specchi infinito e deformante. Occorre osservare con attenzione per coglierne l’intima trama.
I media, gli stessi che minimizzano da sempre la ferocia della guerra che l’esercito italiano combatte in Afganistan, hanno sparato a zero contro il movimento anarchico, quel movimento che non si sottrae alle lotte sociali, che è in prima fila nei movimenti per la difesa ambientale, contro la guerra e il militarismo, contro le leggi razziste e le politiche securitarie nel nostro paese.
Giornali, radio e televisioni, che nell’immediato non avevano alzato i toni, si scatenano dopo la rivendicazione.

Nelle crisi sono sempre ricercati dei capri espiatori, su cui indirizzare l’attenzione della cosiddetta pubblica opinione. Come sono riusciti negli anni ’80 a svuotare di segno e di contenuto la ricchezza dei movimenti del decennio precedente, rovesciandogli addosso, a tutti ed indistintamente, la responsabilità del lottarmatismo, facendo di ogni erba un fascio, comminando carcere a pioggia, provocando divisioni e contrapposizioni, così oggi c’è chi intende rispolverare i vecchi arnesi della criminalizzazione preventiva.
D’altronde la situazione per governi e padroni non è facile: devono far digerire misure sempre più indigeste e in loro cresce la paura di una ribellione sociale.
Il ferimento di Adinolfi è stato colto al volo per rilanciare, dopo le varie informative dei servizi segreti sul pericolo “anarco-insurrezionalista”, l’incombenza della minaccia terroristica di matrice anarchica, collegandolo al malcontento sociale crescente, al movimento NoTav e, in generale, contro ogni forma di opposizione sociale.
Se l’operazione in corso è questa, è evidente che bisogna aspettarsi sempre nuove operazioni repressive.
In una situazione dove l’aggressione alla qualità della vita della popolazione si sta intensificando, soprattutto nel settore del lavoro dipendente, del precariato, del piccolo artigianato e commercio, e dove ci sarebbe bisogno di tutta la partecipazione, di tutta l’intelligenza e della capacità collettiva per organizzare risposte incisive, promuovere lotte, sviluppare iniziative di solidarietà sociale, dare ossigeno alle forme autogestionarie di risposta concreta alla crisi, appare inevitabile doversi misurare con chi pensa che un gruppo, un’organizzazione, dura, combattente, clandestina, possa ottenere risultati efficaci, con chi pensa di avere la risposta in tasca. Come il gruppo che ha firmato l’attentato al dirigente di Ansaldo Nucleare rivendicando la sua appartenenza alla federazione anarchica informale. Soprattutto se l’enfasi mediatica con il quale vengono riportate queste azioni è funzionale al coinvolgimento di tutto il movimento anarchico in un processo di criminalizzazione generale, che ha investito pesantemente anche la Federazione Anarchica Italiana.
Non per caso il testo del nucleo “Olga” viene pubblicato integralmente dal Corriere della sera, che decide in tal modo di fare da megafono alla FAInformale. Viene da chiedersi il perché. La risposta non è difficile.
Il comunicato, dopo le prime righe sulla questione nucleare, è dedicato alla propaganda: buona parte del documento è un attacco violentissimo al movimento anarchico nelle sue tante componenti.
Tutti i quotidiani, i GR e i telegiornali dedicano ampio spazio ad un testo in cui si sostiene che gran parte del movimento anarchico fa proprio un anarchismo “ideologico e cinico, svuotato da ogni alito di vita”. Non solo. Secondo gli informali gli anarchici impegnati nelle lotte sociali “lavorerebbero per il rafforzamento della democrazia”. Ossia per il mantenimento dell’ordine gerarchico.
Chi legge ha l’impressione che lo scopo reale dell’azione non fosse tanto un monito ai signori dell’atomo, quanto l’ottenere l’audience adatta a far sapere a tutti la propria opinione sul movimento anarchico.
L’azione degli anarchici è descritta come mera attività ludica, “ascoltare musica alternativa” mentre il “nuovo anarchismo” nasce dal gesto di “impugnare la pistola”, dalla scelta della “lotta armata”.
Il mezzo annebbia a tal punto il fine che i supereroi da cartone animato, che non amano “la retorica violentista ma con piacere” hanno “armato” le proprie mani non si rendono conto che nel nostro paese il nucleare è al momento uscito di scena, grazie alle lotte e ai movimenti popolari.
Azioni dirette, senza delega, concrete e capaci di mostrare che è possibile prendere in mano il proprio destino, lottare contro i giganti dell’atomo e sconfiggerli, come a Scanzano Jonico e nei blocchi dei trasporti nucleari tra l’Italia e la Francia, dove gli anarchici erano in prima fila.
Ogni giorno gli anarchici partecipano alle lotte per difesa del territorio e per l’autogoverno, contro i padroni per la realizzazione di margini di autonomia dei lavoratori dalla schiavitù salariata, contro la guerra e le produzioni militari, per una società senza eserciti e frontiere, contro il razzismo, il sessimo, la guerra ai poveri e alle donne.
Gli anarchici, che subiscono lo sfruttamento e l’oppressione come tutti, a fianco di ogni altro sfruttato ed oppresso, si battono contro lo stato e il capitalismo per creare le condizioni per abbatterli, mirando a spezzare l’ordine materiale e, insieme, quello simbolico, consapevoli che non basta distruggere ma occorre saper costruire. Costruire senza timore che la casa venga abbattuta, sapendo che ogni spazio liberato, anche per pochi momenti, diviene luogo di sperimentazioni dove tanti assaporano il gusto di una libertà che non è astrazione poetica ma concreta edificazione di un ambito politico non statale.
Azioni che prefigurano sin da ora relazioni politiche e sociali di segno diverso, che non si limitano al “sogno di un’umanità libera dalla schiavitù” perché il percorso di libertà non è un “sogno” ma la scommessa quotidiana dentro le realtà sociali in cui siamo forzati a vivere e che vogliamo contribuire a cambiare. Non da soli. Mai da soli, perché l’umanità è fatta di persone in carne ed ossa, perché agire in nome di un’astratta “umanità” è tipico degli stati, delle religioni, persino del capitalismo che promette senza mantenere benessere e felicità. Non degli anarchici.
La pratica della libertà attraverso la libertà può essere contagiosa ma non si può certo imporre.
Gli estensori del comunicato rifuggono il “consenso” e cercano “complicità”. Se ne infischiano del fine e pensano solo al mezzo, di fatto rinunciando ad ogni prospettiva di rivoluzione sociale anarchica. Il loro linguaggio e la loro pratica sono un cocktail di pratica avanguardista e retorica estetizzante.
Inevitabile che i media dessero loro ampio spazio, seguendo linee interpretative a volte divaricate, altre volte intrecciate. La maggior parte degli organi di informazione ha imbastito teoremi per mettere in relazione le lotte sociali e la FAI informale, in un rapporto quasi simbiotico.
Gli anarchici sono serrati in una morsa interpretativa: da un lato descritti come “terroristi” o loro tifosi, dall’altro come burocrati inoffensivi.
Una morsa che probabilmente sarà gradita a chi si compiace del gesto, vi si appaga in un’estasi esistenziale in cui il bagliore di un attimo compensa il grigiore di una quotidianità spesa nel silenzio e nell’attesa di un’altra occasione per far salire l’adrenalina. “Per quanto lieve sia questo bagliore – scrivono – la qualità della vita ne sarà sempre arricchita”. Tra un pacco postale e una pallottola alle gambe potranno crogiolarsi nella fama di carta che i media pagati da padroni e partiti vorranno regalare loro.
 

Al di là dell’uso mediatico dell’attentato ad Adinolfi, resta il dato politico del riproporsi di un avanguardismo armato, che oltre le seduzioni semantiche, ricalca una parabola da partitino autoritario, che culla l’illusione di potersi ergere a guida di quanti giudicano intollerabile il mondo dove viviamo. Non a caso al processo per le cosiddette “nuove BR”, persone lontanissime dall’anarchismo hanno manifestato entusiasmo per l’attentato di Genova. È l’apoteosi del mezzo, che non si cura del fine. Una sorta di trasversalità dell’agire colma l’apparente distanza dei progetti. In realtà questa distanza si dissolve allorché questa pratica si sviluppa in opposizione alle lotte sociali, inevitabilmente costrette in quello che il nucleo “Olga” chiama “cittadinismo”. Con questo termine bollano le lotte popolari che in questi anni, con crescente radicalità organizzativa hanno più volte messo in difficoltà i governi che si sono succeduti, ledendo gli interessi delle grandi imprese ed inaugurando pratiche di partecipazione certo non anarchiche ma sicuramente lontane dalla triste abitudine alla delega in bianco elettorale.
Fuori dalle lotte sociali cosa resta? Il partito, null’altro che il partito. Non a caso i fautori della federazione informale si sono dotati di una sigla-contenitore, riducendo il percorso di affinità alla pratica di azioni violente. Prescindiamo dal fatto banale – anche se grave – che in tal modo si offre una sponda ad infinite operazioni repressive basate su reati associativi. Andiamo oltre anche al rischio palese che un giorno o l’altro Stato o fascisti possano usare la sigla per scopi propri, utilizzando la sponda loro ingenuamente offerta.
Se l’esito è il partito, l’organizzazione che agisce dove altri non agirebbero, l’organizzazione che si pone in lotta privata con lo Stato e i padroni, allora quest’esito conduce direttamente fuori dall’anarchismo.
L’anarchismo è altrove. L’anarchismo non si impone, ma si propone. Ogni giorno, giorno dopo giorno, nell’auspicio che si fa agire concreto perché gli sfruttati, se vogliono, possono creare le condizioni per fare a meno di chi li sfrutta, perché gli oppressi, se vogliono, possono lottare per liberarsi da chi li opprime. È questione di pratica, di ginnastica della rivoluzione, di sperimentazione del possibile e del desiderabile, di messa in gioco quotidiana.
Nell’estasi superomista del gesto che appaga, scrivono con disprezzo che per gli anarchici sociali “unica bussola è il codice penale”. Scrivono “costi quel che costi”: gli anarchici il prezzo lo pagano ogni giorno. Anche, ma non è né un vanto né una lamentela, di fronte ai tribunali, che ci presentano il conto per le lotte cui partecipiamo.

Gli autori del comunicato usano il termine “federazione” ma riducono il federalismo alla relazione intangibile tra chi si riconosce nella pistola che spara o nel pacco che deflagra, non certo nella volontà di costruire un ambito di relazioni che si impegni a coniugare libertà ed organizzazione.
I detrattori dell’anarchismo sostengono che è impossibile coniugare libertà e organizzazione, anarchia e organizzazione, poiché identificano l’organizzazione con la gerarchia, con lo Stato, con l’imposizione violenta di un ordine sociale che limita la libertà e trasforma l’uguaglianza in uno scheletro formale senza base materiale.
I sostenitori della democrazia parlamentare ritengono che la libertà vada limitata, perché, al di là della retorica sul potere popolare, non vedono la libertà come il segno distintivo di un’umanità che si emancipa dalla sottomissione ad un qualsivoglia ordine gerarchico, ma come pericolo da ingabbiare. Per i democratici l’unico modo di regolare i conflitti, la giungla sociale, è nell’imposizione violenta di regole fissate in base al principio di maggioranza.
Gli esponenti del nucleo Olga adottano la giungla sociale con cui gli Stati giustificano la loro esistenza, come puntello ad un agire per il gusto d’agire, un agire che rifugge con sdegno ogni riflessione sull’etica della responsabilità, sulla necessità morale e politica di costruire strade che tutti possano e vogliano percorrere. Un agire che basta a se stesso, senza alcuna attenzione a coloro, senza i quali, piaccia o non piaccia, si fa la guerra privata allo Stato, non la rivoluzione. Nel loro scritto proclamano “il piacere di aver realizzato pienamente e aver vissuto qui e oggi la ‘nostra’ rivoluzione”. In questo modo la rivoluzione sociale si riduce ad una pratica autoerotica in club privé.
L’anarchismo si è sempre basato sulla consapevolezza nello scegliersi azioni ed obiettivi, e sulla responsabilità personale nel perseguirle: esso rimanda sempre alla coscienza degli individui e alla interpretazione del momento storico in cui essi vivono.
L’efficacia dell’azione diretta non viene espressa dal grado di violenza in essa contenuta, quanto piuttosto dalla capacità di indicare una strada praticabile da tutti, di costruire una forza collettiva in grado di ridurre la violenza al minimo livello possibile all’interno del processo di trasformazione rivoluzionaria.
La violenza se eretta a sistema rigenera lo Stato.
La scommessa degli anarchici organizzatori è quella di costruire ambiti di relazione politica e sociale, che, con il loro stesso esistere, prefigurino relazioni sociali libere, dove il legame organizzativo amplifica la libertà del singolo. L’anarchismo sociale non è permeato da alcuna pretesa che esista la formula definitiva per la società anarchica, ma si interroga e interrogandosi prova a praticare una relazione tra diversi che miri alla sintesi possibile, nel rispetto delle differenze di ciascuno e ciascuna. Siamo consapevoli che solo una società omologata e, quindi, intrinsecamente autoritaria se non totalitaria, può immaginare di espungere il conflitto dalle relazioni sociali: per questa ragione consideriamo l’anarchia un orizzonte costantemente in costruzione, dove la rivoluzione sociale che abolisce la proprietà privata ed elimina il governo, è il primo passo non l’ultimo di un percorso di sperimentazione sociale, che è nostro sin da ora.
I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Italiana riuniti a convegno il 2 e 3 giugno 2012
 
Ed ecco altre posizioni sull’argomento :
I puntini sulle i
Alcune riflessioni a proposito ed in risposta alla rivendicazione FAI ed alle susseguenti chiacchiere mediatiche
A cura di qualche anarchico e di alcuni libertari a Genova (occasionalmente “cittadinisti”)
Inevitabile, è prendere parola nel momento in cui si viene così direttamente chiamati in causa e dai cosiddetti “anarchici informali” e dai media tutti. Probabilmente quanto diremo susciterà altre polemiche ma, sinceramente, crediamo che queste avrebbero dovuto esserci di già molto tempo fa.
Insopportabile: l’essere presi tra due fuochi. Da una parte giornalisti, politici e giudici che speculano su presunti “brodi di coltura”, su fantomatici passaggi che vedrebbero un salto di qualità fra la lotta sociale, di strada – fatta di contestazioni, manifestazioni, azioni, e di tutta la molteplicità di pratiche che la fantasia può mettere a disposizione – e, dall’altra, aspiranti lottarmatisti, ridotti alla parodia di se stessi, che arrivano a sparare per poi dedicare oltre la metà della rivendicazione del gesto a polemiche interne al movimento anarchico, quasi che lo scopo non fosse la sua dimensione politica o sociale (ammettendo che lo possa essere) ma il dimostrare di essere più “puri” di qualcun altro, più anarchici, più duri, più coraggiosi. Insomma da una parte si prepara la forca e dall’altra si continua a rimestare la merda nel proprio stagno.
Immorale. E’ farsi fare la morale su come un anarchico dovrebbe agire per essere “degno” di questo nome.
Indagati. Da una parte dalla questura che, da anni, preme affinché si riesca anche in questa città ad ottenere l’arresto di diversi anarchici e libertari per la solita “associazione a delinquere con finalità eversive” e, dall’altra, dalla neo avanguardia federata che ci spia, evidentemente, pronta a misurare quanto tempo passiamo in “salotto”, cosa facciamo la sera e quanto sia radicale ciò che diciamo e facciamo quando scendiamo in strada.
Innanzitutto. Noi a Genova in questi anni siamo scesi in strada e abbiamo partecipato a diverse lotte sociali, abbiamo organizzato manifestazioni e contestazioni, abbiamo occupato e agito, ci siamo “mossi” col sole e con la luna, non perché riteniamo questo un pezzo di un percorso graduale che, su una presunta linea retta, porta dal volantinaggio alla “lotta armata”, ma perché pensiamo e crediamo che questo è il nostro modo, quello che riteniamo più corretto e coerente con le nostra idee (…e ci dispiace se queste non combaciano con quelle dei “celoduristi dell’anarchia”).
Insieme. E insieme non significa cercare consenso, non significa obbligare la gente ad applaudire o fischiare, non significa dire “o con noi o contro di noi”. Significa essere complici per un momento, per un pezzo di strada, ognuno apportando il proprio contributo e le proprie idee. Non è “complicità” quella che prevede un “pensiero unico”, che non coglie le potenzialità e la bellezza delle diversità che riescono a dialettizzarsi intorno ad una medesima istanza. Per gli “anarchici federati informali” complicità significa sposare acriticamente i loro metodi e le loro (scarse) analisi sociali, pena l’essere indicati come politicanti, riformisti, anarchici da salotto, collaborazionisti.
Insurrezione. Alzarsi e ribaltare il tavolo dei vincoli e delle istituzioni sociali. Questo lo si fa con la condivisione e la partecipazione attiva delle persone, ognuno con i propri mezzi ed i propri tempi. Sentirsi sfruttati fra gli sfruttati, oppressi fra gli oppressi, pensare e lavorare affinché tutti insieme si possa rovesciare le classi dominanti nell’interesse di tutti. Costruire una società nuova con il contributo e la partecipazione di ogni individuo. Questo, magari tagliato un po’ con l’accetta, è l’idea che abbiamo di insurrezione e di rivoluzione. Se la società futura che “gli sparatori” hanno in mente è quella di chi guarda l’altro dall’alto in basso, di chi disprezza tutti come potenziali “complici”, beh, allora non combattiamo dalla stessa parte della barricata.
Imprescindibile è, dunque, per noi il rivendicare le nostre pratiche ed i nostri contenuti, le lotte che abbiamo portato avanti in questa città, come una scelta precisa che nulla ha a che vedere con salti in avanti o indietro. Se volevamo fare il gruppuscolo armato l’avremmo fatto, e questo probabilmente ci sarebbe costato meno in termini repressivi e di controllo. Si sa: inviare ogni tanto mortaretti per posta o fare la bua al polpaccio di un responsabile del cancro nucleare, col nome sull’elenco telefonico e senza scorta, può essere decisamente meno rischioso che ostinarsi ad andare avanti, magari ricominciando cento volte, come individui che si sentono parte del mondo e non al di sopra di esso. Quindi continueremo sulla nostra strada, consapevoli che l’obiettivo non è togliere il monopolio della violenza allo Stato per prenderselo per sé ma far sì che, se necessario, la violenza divenga diffusamente arma di difesa ed attacco degli oppressi tutti.
Inconscio, dei neo avanguardisti. Nel leggere di “piacere ad armare il caricatore”, del “confluire di sensazioni piacevoli”, di armonia con la natura e nichilismo, più varie piccole confessioni da rotocalco per ragazzi, ad una prima analisi, a legger bene e pensar male, appare evidente che più che la fede che animava i nichilisti russi ci si trovi di fronte ad un disagio che ha più a che fare con traumi adolescenziali mal risolti che con la volontà di rovesciare lo zar per aprire la strada al popolo. Il mal celato feticismo per la scoperta dell’arma da fuoco e l’apologia per il proprio coraggio (sino alla galera ed alla morte) ci rimandano ad una dimensione del martirio che con la libertà e l’emancipazione hanno poco a che fare, anche perché escludiamo categoricamente che nell’aldilà ci attendano fiumi di miele e, per i maschietti, 99 vergini.
Insensibilità. La violenza rivoluzionaria può essere una “tragica necessità”, e certamente non siamo qui a piangere per la gamba di un uomo che, lavorando attivamente nella diffusione del nucleare, ha gravi responsabilità nella distruzione del pianeta e nell’assassinio di tantissime persone. Tuttavia, dalla consapevolezza di una tragica necessità all’esaltazione del piacere per l’arma, passa la differenza tra quella che storicamente è stata e che noi chiamiamo giustizia sociale e quella che, nell’attuale situazione storica, per la rivendicazione che si è data, si è mostrata come pura espressione di rancore settario.
Incoerenza. Forse i nostri “nuovi anarchici” non se ne sono accorti ma, mentre loro scrivono di voler “radicalizzare il conflitto”, nelle strade d’Italia e d’Europa il conflitto si sta già radicalizzando da sé, senza bisogno di presunti illuminati a dare l’esempio. In tutti i casi, quello che ci chiediamo è: che cosa ha a che vedere questa visione “azzoppata” del nichilismo con il conflitto sociale (fenomeno allargato per definizione)? L’idea del conflitto sociale e della rivoluzione come fenomeno prettamente ed esclusivamente militare è cosa superata da oltre un secolo. E’ chiaro, crediamo per (quasi) tutti che sul piano meramente militare chi detiene il potere ha già vinto. Se fosse semplicemente il possesso delle armi a stabilire le possibilità di cambiamento allora potremmo di già darci per spacciati. L’equazione pistola=radicalità non sta in piedi da nessun punto di vista, è soltanto una visione auto celebrativa utile a confermare le tesi della polizia. Nelle lotte sociali e partigiane non vi è alcuna gerarchia di mezzi, in alcuni casi possono essere utili le armi, in altre gli scritti e le parole, a volte entrambe, a volte altro ancora. Ciò che conta è la coerenza fra mezzi e fini. Solo l’alzare la testa di tutti gli oppressi può spazzare via l’attuale sistema sociale, e non è implicito né esclusivo che questo debba avvenire “militarmente”.
Il bue… che dice cornuto all’asino. Visto che gli autori del “noto gesto” hanno la pretesa di giudicare la nostra e l’altrui coerenza, facciamo notare che il sottointeso del suddetto gesto assomiglia ad un “colpirne uno per educarne cento”, pratica intimidatoria che forse sarà stata inglobata da quella che i “federati” chiamano “nuova anarchia”, ma che di certo non fa parte della tradizione anarchica a cui noi, irriducibili romanticoni, piace rimanere fedeli: vale a dire che si spara per fermare concretamente un’ingiustizia e non per avvertire e/o storpiare qualcuno.
Individuo, cioè la persona nella sua complessità, interezza, diversità e nelle sue relazioni. Vale per noi e vale per il nostro nemico. Non si spara mai “sulle divise” ma sempre sulle persone. Nel ridurre la persona ad un mero simbolo si compie un’operazione totalitaria, si trasfigura l’umano in una responsabilità e, così facendo, la responsabilità di cui l’individuo si prende carico diviene la sua interezza, vale a dire il mostro da abbattere, il nemico da punire. Qui non si tratta di sparare o non sparare ma di smetterla di ragionare in termini di simboli. Colpire dove più nuoce non dovrebbe significare colpire nel modo più simbolico o spettacolare, più semplice o meno rischioso, ma dove concretamente è possibile fermare l’ingiustizia, inceppare gli ingranaggi della morte. Nel colpire le responsabilità che le persone si assumono nel proprio ruolo noi vediamo il superamento di un ostacolo, la fine di una nocività, e non – come si evince dalla rivendicazione degli “anarchici informali” – il punire una persona. Non siamo giudici, siamo rivoluzionari.
Irredentismo. Di una certa retorica e simbologia “dannunziana” ne faremmo volentieri a meno: l’apologia del “bel gesto”, i movimenti interiori dell’anarchico nuovo, un certo sentimentalismo protoromantico e l’autocompiacimento estetizzante li lasceremmo volentieri ad un passato che, oltretutto, non ci appartiene. Del resto, cari “compagni”, non avete preso Fiume ma, se non ve ne siete accorti, c’è solo un ingegnere con la stampella per il prossimo mese. Già la prosa futurista-individualista era imbarazzante per i suoi tempi, diciamo che riproporla oggi, in peggio, non è certamente un’urgenza.

Informalità. Non è obbligatorio usare i termini solo perché abusati nel milieu anarchico. Se l’informalità veniva posta (anche) in antitesi al lottarmatismo in un periodo in cui le BR tenevano la scena, allora non è che basta non essere come le BR per “essere informali” o determinare un’organizzazione informale. Quando i “nostri attentatori” ci piazzano una rivendicazione oggi, e ieri altri “federati” si addentravano in uno sproloquio, ambientato a Paperopoli, scritto con tanto di descrizione di metodi, linea da seguire, simbolo e sigle da interporre e post-porre, non basta chiamarne il risultato “spontaneismo armato” per esorcizzare l’ideologia lottarmatista. Tutt’al più quello che si ottiene è un peggiorativo dell’ideologia genitrice in un surrogato che mantiene in sé la logica dell’avanguardia ma gli aggiunge l’aspetto di una irrazionalità apparentemente romantica ma, nei fatti, semplicisticamente manichea. Spontaneamente, d’impulso, senza calcolo o razionalità si possono fare molte cose, ma non è detto che queste cose siano sempre la risposta giusta o migliore. L’equazione spontaneità (nell’agire) = libera espressione dell’individuo = rivoluzione è, come direbbe un illustre comico genovese, “ una cagata pazzesca”. L’azione rivoluzionaria è, e dovrebbe essere, a nostro avviso, il risultato elaborato di ragione e sentimento dell’individuo nelle sue relazioni con altri individui e col mondo circostante.

Incomunicabilità. E in effetti chiunque legga il comunicato di rivendicazione non potrà fare a meno di porsi una domanda: ma per gli attentatori chi sono i veri nemici, i tecnocrati a cui vogliono sparare o gli altri anarchici? Nella logica dualistica sopra citata non esiste spazio per dialogare con gli sfruttati, con gli esclusi – se non quello dell’indicare questi ultimi come complici rassegnati. La rivendicazione è per i media di regime e per lo Stato; le critiche sono per gli specialisti della militanza e per gli anarchici. Non sappiamo quanto le vittime del nucleare, vale a dire gli individui morti “piazzati” qua e la nel testo di rivendicazione, avrebbero mai potuto capire delle polemiche interne ai movimenti. Ma forse è colpa loro… o sono “solo” degli indignati o sono, appunto, morti… vero?
Idiozia, o provocazione? Sinceramente non lo sappiamo ma, sta di fatto, che troviamo alquanto grave che all’interno di una rivendicazione di questo genere vi siano contenuti concetti e frasi (estrapolate e incollate in modo raffazzonato) di testi altrui, scritti con altri obiettivi, con diverse progettualità e soprattutto pubblici… con tutto ciò che può comportare a livello repressivo (e scusate se “ragioniamo col codice penale alla mano”). Dunque la proposta è semplice: cari “anarchici informali”, se – come avete annunciato – dovete proseguire con la strada intrapresa, sareste pregati di spremere un po’ di più le meningi ed esprimere concetti vostri anziché inserire quelli altrui fuori (se non contro) il loro contesto originario.
Incredibile. Comunque dopo tante critiche alla Federazione Anarchica Informale una cosa dobbiamo riconoscergliela: per due ore la produzione di Finmeccanica si fermerà… i lavoratori sciopereranno in difesa ed in solidarietà al “manager azzoppato”. Insomma un grande risultato, di quelli che si ottengono solo quando i muti parlano con i sordi.
In marcia. E così giovedì a Genova si terrà una manifestazione “contro il terrorismo”. La canea mediatica, le istituzioni e gli immancabili sindacati sono riusciti a mettere insieme ciò che per natura è contrapposto: le azioni contro Equitalia e la gambizzazione di un amministratore delegato, l’insorgere – ognuno a suo modo – contro i soprusi e l’avanguardia (mal) armata . Peggio: gli sfruttati e gli sfruttatori. Tanto per essere chiari noi non riteniamo che né la gambizzazione, né le molotov, né gli assalti “di massa” ad Equitalia, siano pratiche terroristiche. Terrorismo è il seminare violenza e panico alla cieca al fine di preservare o conquistare il potere. E questo appartiene allo Stato ed ai “fascisti (nazionalisti e/o religiosi) di varie bandiere”. Detto questo riteniamo la gambizzazione un atto intimidatorio e crudele che eticamente non ci appartiene, mentre riteniamo i vari attacchi ad Equitalia, compiuti dagli sfruttati in questi giorni, una battaglia molto più che condivisibile, fondamentale.
Inquisire e raggruppare tutte le pratiche di dissenso, dalla lotta contro Equitalia a quella contro il TAV, dalle pratiche resistenziali contro la crisi finanziaria alla solidarietà verso gli immigrati perseguitati, in un unico calderone assieme al lottarmatismo è una vecchia modalità che gli Stati hanno tutto l’interesse a mettere in atto. Indicare il movimento anarchico ed i movimenti antagonisti come “brodo di coltura”, dipingere i rivoluzionari come doppiogiochisti (in pubblico tutti insieme alla pari, e di nascosto setta separata e sprezzante), dipingere ogni ostilità come terrorismo, è quello che serve al governo per continuare a far passare le sue “misure anticrisi” riuscendo a mantenerci divisi. Hanno già annunciato il rafforzamento delle misure investigative e repressive, hanno già proposto di voler schierare l’esercito a difesa degli “obiettivi sensibili”. Se gli sfruttati cascheranno in questa trappola vi è il concreto rischio che tutte le lotte iniziate implodano in loro stesse.
In cammino. Che non ci si faccia turlupinare da politicanti e sindacalisti, che si lascino le avanguardie separate alla loro alienazione. Abbiamo bisogno di guardare il mondo con realismo, sapendo coniugare le difficoltà e la tragicità della situazione con le dovute risposte, coerenti coi nostri sogni e i nostri desideri. Non facciamoci prendere dalla paura, soprattutto non facciamoci divorare dall’odio e dal rancore (genitori di ogni forma di alienazione). Il mutuo soccorso ed il mutuo appoggio, la capacità di comprendere, la solidarietà ed il coraggio della coerenza (per cui mai il fine giustifica i mezzi) sono l’arsenale che da sempre gli oppressi hanno nella cantina del loro cuore. E queste armi, queste nostre armi, non le consegneremo facilmente alla polizia.
PS:
Incantesimo. Visto che saremo accusati di pratiche magiche, ovvero di riuscire a “dissociarci” da qualcosa a cui non ci siamo mai “associati”, sottolineiamo che questo testo è figlio di alcune individualità e che non a priori rispecchia le posizioni dei vari anarchici e libertari presenti a Genova. Ovvio, ma meglio precisarlo vista l’ottusità dilagante.
Indignati? Noi parecchio, anzi – ve lo concediamo – meglio dire Incazzati.
alcuni anarchici e libertari genovesi
qui invece……
http://culmine.noblogs.org/  sito vicino agli informali, più o meno, se nessuno se ne ha a male o si formalizza….notiamo come si rifaccia apertamente a Renzo Novatore e  Severino Di Giovanni (Distruggiamo Cartagine! La Cartagine moderna, quella dei ricchi, dei preti e dei militari! Questo deve essere il grido dei ribelli e il motto della rivoluzione sociale. Distruggiamo i tartufi! Distruggiamo il covo dei tiranni!
Severino Di Giovanni, 1929)

di cui abbiamo parlato estesamente negli ultimi numeri….
ecco il loro comunicato..

CCF – IL CAOS ALLE PORTE
(Italia, Messico, Grecia)

Mercoledì 13 giugno è stata disposta la campagna internazionale anti-anarchica sotto il nome di “operazione Ardire”. Le forze italiane dell’antiterrorismo di carabinieri e ROS sono state messe agli ordini della PM-inquisitrice perugina Manuela Comodi, ed hanno proceduto all’arresto di otto compagni anarchici. In parallelo, indagini sono state condotte anche contro altri compagni (tra i quali i compagni delle Edizioni Cerbero).
Noi non conosciamo i dettagli del caso, né siamo noi avvocati per parlare il linguaggio di prove documentali o meno. Tutto ciò che sappiamo è che la polizia mondiale vuole abbattere la nuova anarchia.
Giudici, PM, interrogatori e sbirri antiterrorismo vogliono far inginocchiare ed incatenare con le manette gli indomiti insorti che illuminano le notti con la loro ribellione e dipingono le città coi colori di una tenace insurrezione anarchica.
Comunque, tutti noi anarchici d’azione, nichilisti, caotici ed antisociali abbiamo definitivamente oltrepassato il punto dove qualsiasi ritorno alla pace della normalità non è più fattibile. La nuova anarchia sembra la marea esplosiva che travolge i paesi, i confini ed i linguaggi. Compagni che non abbiamo mai incontrato, che non parlano la stessa lingua e dai quali ci separano migliaia di chilometri, fili spinati e mura delle prigioni, ridono e cadono nella malinconia con le nostre gioie ed i nostri dolori condivisi, e la nostra anarchia brucia come la luce di migliaia di soli che eruttano nella gelida notte della massa.
La polizia mondiale vuole abbattere questa ribellione internazionale. Non è una coincidenza che, poco prima dell’”operazione Ardire”, le forze antiterroriste abbiano proceduto all’arresto di alcune persone in relazione agli attacchi della FAI-Bolivia. Non è un caso che l’”operazione Ardire”, al di là dell’aver colpito gli otto anarchici arrestati in Italia, si è espansa in Germania ed in Svizzera, posando il suo sguardo sui già imprigionati compagni Gabriel Pombo Da Silva e Marco Camenisch. Queste alchimie degli sbirri sono state effettuate nel preciso momento in cui i nostri due compagni stavano per giungere al rilascio dopo 18 e 21 anni in prigione, rispettivamente.
Ma l’esibizione della marionetta accusatrice M. Comodi non finisce qui. Con l’”operazione Ardire” sei di noi, compagni della Cospirazione delle Cellule di Fuoco, sono sotto indagine a causa della corrispondenza che abbiamo avuto con alcuni dei compagni arrestati.
Naturalmente, i tiratori di corda dell’unità antiterrorista greca non hanno perso l’opportunità di parlare riguardo al loro supposto contributo all’”operazione Ardire” con presunte informazioni raccolte dal controllo delle e-mail tra di noi. Naturalmente, i loro colleghi italiani non hanno mai dato conferma di questo, dal momento che le presunte informazioni tramite e-mail (incluse nella documentazione del caso italiano) erano traduzioni di testi politici che sono stati pubblicati nelle reti di controinformazione anarchica Culmine e ParoleArmate.
Ma, per non lasciare neanche un centimetro di sospetto di “scuse” legalitarie, vogliamo chiarire che: incuranti dell’inchiesta giudiziaria, dichiariamo che supportiamo tutte le azioni violente insurrezionali della FAI/FRI con tutta la nostra rabbia e tutto il nostro cuore.
Noi stiamo approvando con tutto il cuore ogni parola dalla FAI e la portiamo dentro di noi, cercando dei modi per trasformarla in pratica con le nostre stesse mani. La FAI/FRI era, è e sarà l’essenza della tenace insurrezione anarchica. Supportiamo, promuoviamo e partecipiamo alla Federazione Anarchica Informale – Fronte Rivoluzionario Internazionale (FAI/FRI).
Comunque, la propaganda del nemico e le operazioni militari-poliziesche, come l’”operazione Ardire”, in aggiunta agli arresti, mirano a costruire un clima di paura. Loro desiderano trasmettere la paura della prigione e l’immagine di una polizia onnipotente, in modo da sospendere la guerra della nuova anarchia contro il sistema.
Ciò che è importante per noi in questo momento è combattere la paura. E’ il nostro modo per andare prima al controattacco. “Questo vuol dire affondare ulteriormente il coltello nel cuore del nemico, senza aver paura delle ripercussioni che ciò comporta, con la furia e la gioia iconoclasta che portiamo sempre con noi, nel nostro sorriso e nei nostri sguardi.(Tomo – Fratello-Compagno sotto indagine nel contesto dell’”operazione Ardire”).
Noi non guardiamo indietro, manteniamo i nostri occhi solo in avanti
Che quelli spaventati, o stanchi, scendano adesso dal treno. Non c’è un biglietto di ritorno. Nemmeno ritardi, né fermate… stiamo chiudendo in pugni le nostre mani e camminando contro la nostra epoca, avendo i nostri compagni come fratelli e sorelle.

“Basta, basta, basta!
Che il poeta tramuti in pugnale la sua lira!
Che il filosofo tramuti in bomba la sua sonda! (…)
È tempo, è tempo — è tempo!
E la società cadrà.
La patria cadrà.
La famiglia cadrà.
Tutto cadrà, poiché l’Uomo Libero è nato.”
– Renzo Novatore

LIBERTA’ per i COMPAGNI ANARCHICI
Giuseppe, Stefano, Elisa, Alessandro, Sergio, Katia, Paola, Giulia
SOLIDARIETA’ e FORZA
ai nostri fratelli Gabriel Pombo Da Silva e Marco Camenisch
I membri imprigionati della O.R. CCF della prima fase/FAI/FRI e l’anarchico d’azione Theofilos Mavropoulos
LUNGA VITA ALLA FAI/FRI
LUNGA VITA AL FUOCO della NUOVA ANARCHIA
e ancora, da Finimondo…..

Chi teme il dire, di far non ha ardire

È l’alba del 13 giugno 2012. I carabinieri del ROS — in combutta con la Procura di Perugia — bussano assai poco discretamente alla porta di alcune decine di anarchici, in tutta Italia, effettuando otto arresti (altri due compagni, da tempo in carcere in Svizzera e in Germania, vengono raggiunti dal medesimo provvedimento) e numerose perquisizioni in case e spazi anarchici. 

L’ennesima ondata repressiva lanciata contro il movimento viene chiamata “Operazione Ardire”, forse in omaggio a quella saggezza popolare che ha suggerito agli inquirenti di andare a caccia di arditi fra chi non teme il dire. La cosa che accomuna quasi tutti gli anarchici coinvolti in questa inchiesta è di sostenere apertamente la necessità dell’azione diretta, anche e soprattutto nella sua espressione individuale, trasgredendo i dettami della collettività sanzionatrice — istituita o in divenire…
La sensazione più comune è di essere a un passo dal baratro. Più che una vita da vivere con gioia, la stragrande maggioranza delle persone si accontenta di una sopravvivenza trascinata a fatica, facendo quotidianamente ciò che le è sgradito, non ciò che vorrebbe fare. Un’esistenza di rinunce, delusioni, abbandoni, sconfitte, rassegnazione. Una servitù volontaria accettata pur di evitare la miseria più nera. Se questa è la regola, come stupirsi di fronte alla trasgressione? Noi non ce ne stupiamo. Chi decreta ed impone le regole nemmeno, però deve correre ai ripari. Soprattutto oggi, quando persino la sopravvivenza è in pericolo. Ogni trasgressione diventa allora un pericolo immediato. Anche se piccola, minoritaria, debole, sporadica, è comunque simile a un virus che, se non immediatamente isolato e neutralizzato, può causare gravi danni alla salute di questa società fondata sul denaro. Ciò spiega come mai i terapeuti stipendiati dallo Stato siano continuamente al lavoro, con l’uso di mille strumenti, inventando mille antidoti, scoprendo mille vaccini per tenere a bada la minaccia di uno sconvolgimento sociale. 
Oggi, in preda al panico davanti all’approssimarsi di questa minaccia, danno i numeri e distribuiscono a destra e a manca articoli come il 270 (“associazione sovversiva”) o all’occorrenza il 416 (“associazione a delinquere”). Ne stanno scoprendo ovunque, di codeste associazioni. Che, oltre ad essere diffuse sul territorio, pare siano costituite dagli individui più disparati. È solo una questione di circostanza e di occasione. Nei confronti dei suoi nemici più espliciti, lo Stato agisce ventiquattr’ore al giorno e trecentosessantacinque giorni all’anno; nei confronti degli altri, aspetta il momento più propizio. Ma prima o poi viene il turno di tutti, del sovversivo indisciplinato e del sindacalista incazzato, dell’animalista radicale e del disoccupato autorganizzato, dell’ecologista indignato e del lavoratore precarizzato…
Tuttavia l’estensione del controllo sociale non sarà mai in grado di garantire la quiete nelle strade delle città e nel cuore degli individui che le percorrono, mentre può prepararne il disordine. Più la regola si stringe attorno ai desideri degli individui, più aumenta — oltre alla loro mansuetudine — anche la voglia di trasgressione, con effetti dirompenti.
Certo, anche la trasgressione ha il suo arsenale. Un arsenale ricco, composito, accumulato in secoli di lotte, dove chiunque può trovare ciò che più gli aggrada. Fra le armi a disposizione c’è anche la violenza. Non la violenza cieca e indiscriminata del terrorismo, che è solo opera dello Stato, ma la violenza del sabotaggio e dell’azione diretta, individuale o collettiva che sia. Di fronte a una vita priva di senso, niente e nessuno potrà mai impedire alla rabbia di esplodere. Se si contamina il mondo con le radiazioni, è inevitabile che qualcuno colpisca chi ne trae profitto. Se si mettono sul lastrico migliaia di persone, è inevitabile che qualcuno se la prenda con gli strozzini. Se si devasta l’ambiente per costruire Grandi Opere, è inevitabile che qualcuno ne saboti i cantieri. Se si violenta la vita, è inevitabile che qualcuno attacchi gli stupratori. Ma solo l’immonda logica sbirresca può vedere in ogni abitazione un covo, in ogni petardo un ordigno, in ogni difesa della propria intimità una forma di clandestinità, in ogni gesto di solidarietà una congiura, in ogni singola arma una santabarbara. 
 
Andando a ritroso nel tempo, quando una quindicina di anni fa un magistrato di Roma inventò una banda armata (ed i soliti Ros adescarono e addestrarono una falsa pentita) per liquidare un buon numero di anarchici, i più alzarono le spalle come se la cosa non li toccasse: «in fin dei conti, se la sono voluta», «a noi non capiterà mai», «così imparano a comportarsi». Quasi tutti convinti che solo chi non ripudia le azioni considerate violente attiri su di sé la repressione dello Stato. Quanto è accaduto in seguito ha dimostrato l’infondatezza di tale convinzione, nonché lo scarso acume nel non comprendere che la criminalizzazione di una idea avrebbe aperto la strada all’incriminazione di qualsiasi altra idea ritenuta sovversiva.
Oggi a farsi avanti è una Procura nota per il suo accanimento, quella di Perugia, coadiuvata da un generale famigerato per i suoi intrighi. Qualcuno continuerà ad alzare con indifferenza le spalle? O sapremo intensificare, pur nelle rispettive differenze, senza cieche esaltazioni e vili prese di distanza, l’attacco contro questo mondo?
 
[volantino distribuito a Roma il 29/6/12 – scaricabile dai Papiri]

 
 
Sovversivi, ricordo di Paolo Braschi
 

 
 
 
 
 
 
 
 
RICORDO DI PAOLO
Caro Paolo Braschi, nome e cognome, perché mai come te un compagno l’ho sentito chiamare per nome e cognome. Molto probabilmente perché eri il compagno Paolo Braschi. E questo tuo essere a noi Paolo Braschi ci portava direttamente nell’Anarchia. Sai quella che “siamo chiamati malfattori eppure la nostra è solo idea d’amore” Proprio così. Sei stato tu che in occasione della lapide per il centenario della morte di Pietro Gori l’hai suggerita e così è stata scritta in omaggio a Pietro Gori. Ma questa frase ti rappresenta tutta com’è. Giovane anarchico ti hanno trattato da malfattore, da terrorista. Imprigionato, pestato come da sempre viene fatto agli anarchici. E non era certo un periodo di leggerezza. Era appena qualche giorno prima che venisse in tutta la sua tragicità la strage di stato. Anzi comincia proprio da lì. Dall’arresto tuo ed altri compagni accusati di aver messo la bomba alla Fiera campionaria. Ma era solo l’inizio. Voi in carcere, lo stato con i suoi servizi segreti ed istituzioni a tramare con fascisti, bombe, stragi, accordi sottobanco con opposizioni malcelate, funzionari e commissari zelanti a tessere sapientemente una strategia da schiaffare in faccia alla società cosiddetta civile. Così in Italia si preparava la storia di un paese che non poteva e non doveva abbandonare gli accordi internazionali. E dove ancora non potevano arrivare proprio questi accordi, lo stato, gli americani , i fascisti si buttarono zelanti a capofitto ad organizzare stragi da addossare agli anarchici. Piazza Fontana, e poi tutti le altre fino a noi. Perché ieri come oggi , anche se la banalità è lampante, sono gli anarchici che si possono e devono dare in pasto al popolo che già allora stava perdendo la memoria ed anche la capacità di autodeterminarsi . La società che volevano gli stragisti era esattamente quella che purtroppo ci è arrivata. Ma gli anarchici, allora come ora sono sempre ad affermare, che la verità delle stragi è da cercare fra i padroni. La strage è di stato. E non a caso anche stragi lontane dalla strategia della tensione come quella di Firenze e di Roma oggi stanno mostrando le connivenze fra la mafia e lo stato. Allora Gli anarchici hanno pagato con anni di carcere, con la morte come Pinelli ed i compagni calabresi, ma la verità uscì , fu chiaro a molti che le stragi furono attuate da apparati dello stato. E anche se oggi i tentativi di gettare tutto in ambiguità, o verità “giudiziarie” sono tanti ed a formularli sono non solo i funzionari di stato o magistrati come D’ambrosio.Il tentativo di Napolitano di coronare finalmente la teoria del PCI non a caso sono seguite operazioni come il film di Giordana che cercano una neutralità che non può esserci. vittime e carnefici, Pinelli, Calabresi sono tutti da considerare vittime del terrorismo. L’unico terrorismo di quegli anni è quello di stato. Pinelli è stato assassinato, ne eri certo come le bombe alla Fiera non le avevano messe gli anarchici. E voi compagni che in quegli anni lo avete vissuto sulla pelle, e alcuni con la perdita della vita, l’avete dimostrato. Che se ne fanno di stragi gli anarchici? L’unica strage che gli anarchici possono perseguire è quella molto pericolosa per il potere di distruggere il potere stesso. Quante volte l’hai detto. Tante volte. A raccontare quei giorni, minuziosamente di quanto il solerte commissario Calabresi, oggi in corso di beatificazione ,facesse picchiare dai suoi subordinati, di come ti invitò a gettarti dalla finestra, cosa che poi fece con Pinelli, di quante volte nelle carceri ti oltraggiassero perché anarchico. Ma raccontavi anche che a volte il carcere, nei momenti calmi, come li chiamavi, era quasi un passeggiata a confronto di quello che avevi passato da piccolissimo negli istituti religiosi. Vere e proprie sevizie. Torture psichiche e e fisiche. A me facevi accapponare la pelle. Eppure anche io ne ho passate. Ma ti confidavo che a tuo confronto avevo passato un’infanzia da principessa. Eppure se c’era una persona equilibrata , positiva eri tu Paolo. E non te lo dico ora che sei purtroppo qui nella bara. I compagni me l’hanno sentito dire più e più volte. Paolo eri un  grande compagno. Una persona eccezionale, perché tutti sono bravi ad essere positivi ed equilibrati quando non gli succede nulla o quasi. Sai la vita liscia..a te non è toccata, sofferenze dolori, ma la tua essenza era tutta proprio quella ”eppur la nostra idea non è che idea d’amore ”. Spesso da quando ti ho conosciuto si intavolava la discussione del perché eravamo anarchici; si andava dalle passioni ai dolori, alle persone conosciute che in male o in bene ci avevano fatto avvicinare all’anarchia, dalle letture alle esperienze dirette, ma alla fine convenuto che più che altro eravamo veramente malati cronici di anarchia tu sostenevi che in vita si faceva quello che si poteva ma che volevi morire da anarchico. Anarchico fino all’ultimo giorno. Paolo Braschi siamo qui con te, siamo a salutarti con queste bandiere, compagni da tutta Italia hanno mandato i saluti per Paolo Braschi anarchico, un grande compagno anarchico, tanti ,e noi siamo qui a darti questi fraterni saluti , anche a piangere per la tua straziante e assurda morte. Molto assurda quasi una costruzione kafkiana, ma continueremo a ricordarti, a ascoltare la tua voce, le tue testimonianze, compagno Paolo Braschi.

Ciao Paolo,viva l’anarchia, viva gli anarchici, tutte e tutti.
Per un mondo di liberi ed uguali dei ribelli sventoliamo le bandiere insanguinate… eppur la nostra idea non è che idea d’amor…..
 
 
 Fotografa Contro: Ippolita Franciosi
Ippolita è una fotografa libertaria molto attenta alle vita degli ultimi, sempre dalla parte del torto, e con uno sguardo particolare e partecipe alla R/Esistenza delle donne. I suoi lavori sulle donne partigiane, sulle ultime curandere, sulla RE/SISTERS sono di quelli che non si dimenticano più…..
qui il suo sito     http://www.ippolitafranciosi.net/
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Femminismo al sud !
 
 
 
 
 
 
 
Altro che snoq !…………………..
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 Pisa , 12 maggio, a quarant’anni dall’assassinio di Franco Serantini

Il passato che non passa
 

In un paese dove cambia tutto per non cambiare niente, la memoria collettiva latita, e la giustizia per le stragi e gli omicidi fascisti manca del tutto, non deve stupire che a distanza di 40 anni dal quel maggio insanguinato venga convocata una manifestazione per ricordare Franco Serantini, ventenne figlio di n.n., anarchico, arrestato e massacrato di botte dalla polizia a Pisa mentre si opponeva ad un comizio fascista, morto in carcere dopo due giorni di agonia senza che nessun medico intervenisse. Persino negli anni in cui Pinelli volava dal quarto piano della questura di Milano, Valpreda si faceva innocente tre anni di carcerazione preventiva accusato di essere la belva umana, il ballerino anarchico, l’attentatore omicida della bomba alla banca dell’agricoltura di Piazza Fontana, il caso Serantini toccò nel profondo l’animo di tante persone. Corrado Staiano lo ricordò in un bellissimo e dolente libro; “Il Sovversivo”. Racconta Staiano:
“Il funerale di Franco Serantini, martedi 9 maggio 1972: un misto di sfacelo e di orgoglio, di tensione e di consapevolezza che ancora una volta è finita, per uno, forse per tutti. Ci sono i ragazzi delle manifestazioni, delle marce, dei sit-in, della protesta, con i giubbotti, i blue jeans, le barbe, i berretti cinesi, ci sono gli anarchici di tutta la Toscana, alcuni, i più anziani, con i cravattoni neri, ci sono il sindaco, i deputati della sinistra, i sindacalisti, i comunisti, i socialisti. Una ragazza assorta, che cammina proprio davanti alla bara, tiene con le due mani un mazzo di gladioli rossi. I netturbini reggono la loro corona, un’altra corona la portano i ragazzi del riformatorio.

La corona della giunta comunale è di calle bianche tenuta alta dai vigili urbani. I detenuti del Don Bosco hanno inviato delle margherite, dalla massa di teste spuntano cuscini di viole, di rose, di garofani. Quelli di Lotta Continua sono venuti da piazza S. Silvestro marciando in migliaia attraverso mezza città, in corteo dietro un enorme striscione rosso, teso a pochi centimetri da terra: -Franco rivoluzionario anarchico assassinato dalla ‘giustizia’ borghese-. Il funerale si muove dall’obitorio davanti all’orto botanico in via Roma. Serantini è rimasto molte ore nudo, il suo vestito era stato sequestrato per la perizia e lui non ne possedeva un altro. Poi è arrivato un compagno con una giacca, un paio di pantaloni ed una rosa rossa da mettergli sul petto. La città è partecipe, dolente, il popolo porta fiori, le donne sostituiscono la madre ignota e piangono il figlio di nessuno. Le saracinesche dei negozi sono abbassate, molti portoni sono chiusi. Marciano nel corteo migliaia e migliaia di persone. Tra loro anche quelli che Franco salutava ogni giorno, su e giù per corso Italia e il Borgo Stretto e che ora si sono ricordati di quel ragazzo col motorino blu. Pianto da un’intera città come un eroe caduto, il funerale è l’unico dono che abbia avuto dagli uomini”
Ma nessun magistrato gli rese giustizia, nessuno pagò per la sua morte, a meno che non si consideri giustizia l’attentato che colpì il medico del carcere alcuni anni dopo, come di lì a poco sarebbe stato colpito Calabresi per il “volo” di Pinelli. Serantini fu tra i primi di una lunghissima scia di assassinati in manifestazioni di piazza o in agguati fascisti, rimasti senza un giusto processo, senza possibilità di una verità storica ufficiale, senza possibilità di pace neppure a distanza di diversi decenni. Se Franco si potesse risvegliare troverebbe ancora un apparato statale sclerotizzato, un sistema di appalti corrotti e delle mafie tracotanti, un governo che agita lo spauracchio del pericolo anarchico, che minaccia l’uso dell’esercito, che non vuole trovare i colpevoli delle stragi di Piazza Fontana, di Brescia, dell’Italicus, che assolve e promuove i funzionari responsabili dell’assassinio di Carlo Giuliani e della mattanza della scuola Diaz al G8 di Genova.

Il migliaio di persone che ha marciato a Pisa quarant’anni dopo raggiungendo il monumento a Serantini in Piazza S. Silvestro in buona parte era composto da giovani. Un ragazzo dell’età di Franco teneva in alto un cartello con scritto ” anche se vi credete assolti siete per sempre coinvolti “
( S. E.)
 
Letti per voi :

Marco Bruttini e Marco Muzzi La dolce Maremma (immagini parlate, tradizioni popolari) Edizioni Effigi
 
Ispidi altezze/infrange/la storia del contado/di Siena e di Maremma/tra la morte e la fadiga/d’altre ombre morte/
da vivissime gesta/di cantori/procede
 
Popolo mio/atticciato forte/al sangue de’ martiri/a la vena rotta de’ secoli/nel gran cuore d’altri popoli/
dove sei?/ora scianguini forte/di trapassati amori/ne’ grappoli acerbi/de la sua graziosa vigna.
 
 
(Massimo Lippi , il futuro a memoria)
Può ancora emozionare un libro? Certo che può. “La dolce Maremma” opera- summa trentennale del lavoro etnofotografico di Bruttini e Muzzi, riassunto di uno sterminato archivio fotografico in bianco e nero, testimonianza di decennali viandanze per borghi e campagne della Toscana minore con le sue befanate, focarizze, processioni, fiere e cantar del maggio, emoziona, attira, risucchia in un viaggio temporale. Per dirla con le parole dell’introduzione di Pietro Clemente “così alla fine del viaggio nel tempo e nello spazio dentro queste immagini, ci troviamo a riconoscere in esse in evidenza quella pratica conoscitiva che Adorno connetteva con la felicità: lo sguardo lungo e contemplativo, a cui solo si dischiudono gli uomini e le cose, è sempre quello in cui l’impulso verso l’oggetto è spezzato, riflesso. La contemplazione senza violenza, da cui viene tutta la felicità della verità, impone all’osservatore di non incorporarsi l’oggetto: prossimità nella distanza. La giusta distanza: per partecipare senza invadere, per mostrare senza esebire, per immaginare senza obblighi di evidenza.” Le 133 foto di Bruttini e Muzzi raccontano la marginalità ma anche la Resistenza di un mondo contadino ad una (post) modernità dissennata che ha anteposto il consumo all’Uomo. Il cantare del maggio che fa raccogliere il testimone dell’ottava ai ragazzi, la fiera di Ghirlanda ritrovo degli indios maremmani tra cavalli e buoi, il Primo Maggio a Piloni tra pugni alzati e garofani rossi, e una squadra di maggerini che canta a Roccatederighi di fronte al busto di Francisco Ferrer , distrutto dai fascisti e ricostruito dagli abitanti. E “preparazione” di maiali e cinghiali che non contraddicono la benedizione degli animali per S. Antonio Abate. Completano il lavoro testi di Florio Carnesecchi, Mario Papalini, Pietro Clemente,Piergiorgio Zotti,Luigi Tomassini e le splendide poesie di Massimo Lippi. Un libro imperdibile, tra immagini parlate, maremme amare, maremme dolci, maremme refrattarie alle bandiere blu e alla monocultura turistica.

 (Ulisse)
Tutto d’un fiato  Maria Jatosti    Stampa Alternativa editrice
Tutto d’un fiato: romanzo denso e appassionato, è diario politico e allo stesso tempo intimo, e restituisce un pezzo autentico della nostra storia. L’incontro con Maria Jatosti è occasione per ripercorrere vicende e sentimenti – quali la tormentata storia d’amore con Luciano Bianciardi – da cui il romanzo scaturì. Alla storia privata sono intrecciati gli impegni pubblici – il partito, il lavoro, i sodalizi intellettuali – che a partire dagli anni Cinquanta hanno riempito di storie e di passione la vita dell’autrice.Autobiografia collettiva” fu definito questo libro quando fu pubblicato per la prima volta nel 1977 e anche “diario politico di una vita privata”. Che poi è il segno, il timbro, la caratteristica di questa scrittrice dallo stile dirompente sostenuto da una tenacia e da una passione che si nutrono tanto della lunga militanza politica quanto della vicenda esistenziale.
 
LUCIANA BELLINI:
DAL MESTIERE FINITO   editrice Laurum
AL MESTIERE RIPRINCIPIATO
Come dal bozzolo di una formidabile scrittrice della vita contadina
possa prendere il volo una farfalla-scrittrice della vita universale
di Antonello Ricci
Un billo di nome Angiòlo che passeggia su e giù per l’aia. È socievole. Curioso. Sficcanasa dappertutto. Fosse per lui, non rientrerebbe mai nel pollaio, manco a dormire. A volte prova addirittura a infilarsi su per le scale di casa. Ha orecchie e un cuore grande così… e ascolta ascolta ascolta. Proprio per questa sua misteriosa pietas ha scampato, una dopo l’altra, le mattanze delle Feste Comandate (chiò, chiò, chiò).
Poi c’è Luciana: donnina piccola-piccola, infinitamente peperina, testarda e coraggiosa. Moglie-madre a tempo pieno, fino a qualche “attimo” fa, ma anche casalinga. E coadiuvante agricola. E chi più ne ha più ne metta. Ma ora che i figli si sono fatti grandi e sono “partiti” e le è piombata addosso la pensione, Luciana si sente smossa e turbata dai primi cenni di menopausa. Si sa, gli ormoni non perdonano. E si ritrova così, all’improvviso, disorientata senza più il rassicurante orizzonte del suo mestiere-non-mestiere di sempre, nel cuore di un tormentato passaggio esistenziale. Con però ancora addosso vitalità da vendere. Tutto ciò le infligge una comprensibile sofferenza. Si sente sola. Incompresa nel suo desiderio per un “dopo” di ancora-vita. Così, a un crocevia tanto difficile e delicato, Luciana elegge il tacchino Angiòlo a proprio confidente… e parla parla parla (gnamo, gnamo).
Infine c’è Lui, il marito-Capoccia del podere. Uomo buono e dolce, comprensivo, generoso, che da sempre si ammazza di lavoro per la famiglia. Ma pur sempre maschio. E i maschi di certe questioni sembrano proprio non poter e non voler capire: restano troppo lontane dal loro mondo di certezze ereditate e tramandate sotto il segno di un lavoro che redime ma anche abbrutisce: così a tavola Lui è sempre distratto, insofferente a certi discorsi, mangia e si butta davanti alla televisione, si addormenta. Sente che su questo punto con Luciana sono troppo-troppo distanti, ne soffre anche lui, ma sceglie di proteggersi nel silenzio.
Questi, in sintesi estrema, protagonisti e ingredienti principali del nuovo libro di Luciana Bellini: il bel racconto lungo Il mestiere finito, appena uscito dai torchi della casa editrice Laurum di Pitigliano (pp. 84, euro 10.00; seria la cura editoriale, si segnala qui la deliziosa copertina). Il mestiere finito rinasce a nuova vita dopo una infelicissima prima edizione datata 2010, mortificata dai refusi e da un glossario alla viva il parroco, nonché impoverita da un titolo grossolano e vacuamente ammiccante: Il billo della vita.
Il mestiere finito è un libro in cui c’è veramente poco spazio per spiritosaggini stucchevoli o per bagni di lacrimuccie da nostalgie campagnolo-crepuscolari. C’è sempre la Luciana che abbiamo amato fin dai suoi esordi (dai Racconti raccontati a La terra delle donne). C’è sempre quel suo disarmante, poeticissimo canto in minore per l’infanzia perduta dei vicoli di Scansano e un mondo contadino feroce, ignorante e abbracciato con sofferenza, ma sempre ricco di vera cultura e umanità pietosa. C’è sempre la miracolosa scrittrice contadina che sa farsi “stenografa” morale, testimone partecipe della doppia oppressione che segnò la vita contadina al femminile.
Ma stavolta c’è di più. Luciana aveva già offerto ai suoi lettori un promettente assaggio di novità con La cittina (Millelire speciale di Stampa Alternativa-Strade Bianche): racconto breve, di straziato-composto dolore incentrato sulla morte di suo padre e sul proprio (inevitabile) precoce ingresso nel mondo del lavoro come servetta presso una famiglia benestante (schiavitù dell’infanzia contadina). Ma con Il mestiere finito Luciana abbandona definitivamente il suo bozzolo di scrittrice contadina per volare, finalmente libera farfalla, scrittrice tout court. Scrittrice punto-e-basta. Eh sì, perché stavolta Luciana trova il coraggio di attaccare con le armi del racconto i luoghi più profondi remoti protetti (spesso rimossi) della nostra vita di uomini e donne: il privato del nucleo coniugale, le speranze disattese, le frustrazioni di una vita, il silenzio e le incomprensioni di una vecchiaia che prima o poi arriverà. A fianco di un uomo con il quale non si riesce a parlare di desideri e attese. Di cose più intime di quelle quotidiane. Di cose spirituali. E quindi si soffre. Ma proprio in questo frangente di bilanci urgenti, ultimativi quanto problematici, va detto che Luciana si rivela capace di analizzare fino in fondo con occhio impietoso e spassionato la propria fragilità di donna, di essere umano, la propria solitudine, la propria inestinguibile voglia di felicità e poesia, finendo per trovare accenti di verità universale. Luciana riesce insomma a trasfigurare la propria vita in letteratura senza aggettivi. Il mestiere finito è un racconto amaro, caustico a tratti. Ma anche (come sempre, in Luciana) lieve, pieno di garbo, pronto al sorriso. Luciana sempre innamorata della vita come miracolo. Sempre speranzosa nel domani come nuovo incipit. Sempre perdutamente innamorata del suo Elvo. E, infine, sempre ostinatamente felice sotto il cielo fecondo e turbolento di un mestiere finalmente ritrovato. E riprincipiato. Il mestiere di scrittrice.
La Patagonia Rebelde  di Osvaldo Bayer  ED. Eleuthera ( e un intervento contro Bruce Chatwin )

di Alberto Prunetti
patagoniacover.jpg[Pubblico la mia introduzione all’edizione italiana della Patagonia rebelde di Osvaldo Bayer, da me tradotta e ridotta per l’editrice Elèutera. L’autore, sconosciuto in Italia, rappresenta in Argentina il simbolo vivente della resistenza alla dittatura militare. La sua opera, un tempo data alle fiamme nelle pubbliche piazze, è adesso diffusa sui banchi delle scuole mentre l’autore, costretto dai militari all’esilio, rappresenterà il paese australe nella Fiera del libro di Francoforte, dove l’Argentina è ospite d’onore nel 2010. Segnalo ai lettori di Carmilla una mia intervista all’autore della Patagonia rebelde realizzata per il Manifesto nel 2005 e il mio romanzo Il fioraio di Perón in cui Bayer figura come uno dei protagonisti] A.P.
La Patagonia rebelde di Osvaldo Bayer è un libro perseguitato. Gli esemplari del volume hanno conosciuto, nell’Argentina dei sequestri di Stato, lo stesso destino toccato in sorte alle persone: qualcuno è venuto a prenderli e se li è portati via. Scomparsi nel nulla. Ma la tenacia dell’autore alla fine l’ha avuta vinta. Ricomparso da anni in Argentina, finalmente Patagonia rebelde arriva anche sugli scaffali italiani, seppur in edizione ridotta. Quella raccontata da Bayer è una storia lunga e tormentata. La storia di uno sciopero insurrezionale che si conclude con millecinquecento operai rurali fucilati dall’esercito argentino e sepolti in fosse comuni non poteva che essere tragica.
Una tragedia che si riflette nel titolo dell’articolo in cui Osvaldo Bayer per la prima volta affronta questo argomento, rompendo un tabù nella storiografia argentina: Los vengadores de la Patagonia Trágica, comparso nei numeri 14-15 di «Todo es Historia» (giugno-luglio 1968). La ricerca storica prosegue negli anni successivi e solo nell’agosto del 1972 Bayer dà alle stampe un primo tomo delle sue indagini, con titolo omonimo a quello dell’articolo. Nel novembre dello stesso anno appare il secondo tomo, mentre il terzo esce nel 1974. Intanto il lavoro di Bayer ha preso il titolo definitivo di Patagonia rebelde.
Tra il gennaio e il febbraio del 1974 il regista argentino Héctor Olivera termina le riprese di una pellicola appunto ispirata all’opera di Bayer. Nell’aprile 1974 il film viene in un primo momento bloccato dalla censura. La pellicola è poi proiettata nei cinema su decisione del presidente Juan Perón, ma subito dopo la sua morte, sotto l’infausta presidenza di Isabella Perón, il film di Olivera viene ritirato dalle sale argentine. L’autore e il libro non hanno conosciuto una sorte più felice di quella della pellicola.
Come ricorda lo stesso Bayer – intervistato il 29 aprile 1983 da Osvaldo Soriano per la rivista «Humor» – nell’ottobre del 1974 l’autore della Patagonia rebelde comincia a ricevere minacce telefoniche e visite di strani personaggi che si qualificano come appartenenti ai servizi informativi della polizia. In seguito il suo nome appare in una
lista redatta dal gruppo terrorista di estrema destra Triple A, autore di svariati assassinî di personalità di sinistra, che lo condanna a morte. A quel punto la famiglia di Bayer si rifugia in Germania, lui rimane ed entra in clandestinità. Infine ripara lui stesso in Europa. Torna in Argentina dopo un anno, ma il colpo di Stato militare del 1976 lo obbliga a un esilio di otto anni.
La Patagonia rebelde soffre un destino analogo. Mentre l’editore ripara in Messico (dopo che una bomba è esplosa sotto la sua abitazione) e la persecuzione di Stato colpisce tutti i nomi che compaiono nei titoli di coda del film di Olivera, i soldati dell’esercito argentino passano in rassegna le librerie alla ricerca dei titoli sovversivi. Le copie della Patagonia
rebelde finiscono in mucchi che vengono dati alle fiamme sotto lo sguardo di una soldataglia rispettosa di «dio, patria e famiglia». Intanto dalla Germania Bayer riesce a recuperare, con l’aiuto di un’adolescente tedesca, il manoscritto dell’ultimo volume della sua opera, che viene pubblicato in spagnolo nel 1978, in Europa. Dal 1983, caduta
la dittatura militare, il libro viene ristampato in versione integrale a Buenos Aires, e il suo autore torna a vivere nella casa del quartiere Belgrano di Buenos Aires.
La Patagonia rebelde è adesso disponibile in lingua originale in due edizioni: una in quattro volumi, per un numero complessivo di pagine superiore alle 1.600, e una in versione ridotta, che comunque consta di ben 430 pagine. Entrambi i due formati erano al di fuori delle possibilità economiche di Elèuthera. Autore ed editore italiano si sono trovati d’accordo sull’opportunità di pensare a una edizione italiana ridotta, che io ho realizzato con il consenso di Bayer.
Il libro infatti ha avuto una storia controversa e si è allungato e accorciato nel corso del tempo, un po’ come un bandoneon, una fisarmonica argentina. Alcune parti, rilevanti per il lettore argentino, sono state eliminate senza creare grossi problemi al lettore italiano. Mi riferisco in particolare alle lunghe pagine in cui Bayer demolisce la tesi, avanzata da storici militari, che vorrebbe lo sciopero patagonico del 1921 orchestrato dal Cile per «sovvertire» l’ordine interno dell’Argentina. Altre sezioni non tradotte sono quelle in cui l’autore confuta gli storici conservatori o analizza il ruolo del presidente Yrigoyen e dei vertici dell’Unión Cívica Radical, il partito di governo all’epoca dei fatti. Infine si è scelto di ridurre le interviste ai testimoni oculari degli eventi e le citazioni dei quotidiani locali, favorendo così la sintesi del testo e condensando gli eventi nel loro sviluppo temporale, senza le lunghe digressioni dell’originale.
( nella foto El Toscano )
 
 
 
 
 
 
Dialogo immaginario: autore e traduttore parlano della Patagonia, di Chatwin e di puma ribelli
di Alberto Prunetti
_Osvaldo, l’altro giorno pensavo al tuo libro, la Patagonia Rebelde…
Bayer annuisce.
_Sono pazzesche queste storie patagoniche e mi sorprende che in Italia nessuno le conosca…
_Be’, voi avete la vostra Patagonia, e noi la nostra. Voi quella dei viaggi dei turisti, e noi quella dei bandoleros e dei gauchos. Voi quella di Chatwin…
_…e voi quella di Bayer!, lo interrompe il traduttore.
Osvaldo, che non vede l’ora di parlare di Chatwin, sorride, poi si avvicina con l’aria di chi sta per rivelare un segreto.
_Sai, il libro di Chatwin sulla Patagonia è scritto per gli europei. Agli argentini non piace. Ma voglio dirti qualcosa di più. Ti racconterò dell’antipatia reciproca che mi legava a Chatwin.
Osvaldo si avvicina ancora di più, poi inizia a parlare sottovoce, come per non farsi sentire.
_La prima volta che l’ho visto, mi ha ricordato una vecchia rappresentazione di un ambasciatore di sua maestà britannica. Senza l’occhio bendato, però…
Scoppiano entrambi a ridere.
_Stava di fronte a me. Proprio qui, nello studio. Dove sei seduto tu. Gli avevano fatto il mio nome. Gli avevano detto: “Questo Bayer è un intellettuale del terzo mondo, sa tutto sulla Patagonia”. Lui ha tempo per un viaggio, qualche settimana nel lontano sud. Sì, non è troppo, lo ammette, ma nel primo mondo time is money. Chiede una bibliografia sul tema. Sì, libri, niente documenti. No, niente antropologia o etnologia. Preistoria? Yes. Leggende: sì. Ecologia? No, no. Viaggiatori, leggende, donne, indios, bandoleros? Excellent. Scioperi? Ah, scioperi… Mah!… Con anarchici? Oh, allora yes, fantastico!
Misi tutti i libri in una valigia e gliela diedi. Ovviamente anche la Patagonia rebelde. Tre settimane dopo mi restituì tutto.>>
Il traduttore è incuriosito: _L’hai più rivisto?
_Lo incontrai qualche anno dopo, quando ero già in esilio. Lui aveva fatto delle dichiarazioni su di me, sul “Times”. Criticava la mia indagine, dall’alto del suo scranno di intellettuale europeo. A Parigi lo incrociai. Gli dissi che aveva fatto un bel lavoro col suo libro In Patagonia. Ma era un lavoro da cocinero. Ovvero aveva “cucinato” il suo libro mettendo insieme gli ingredienti trovati nei libri degli altri. Niente di male, si fa spesso così. Ma non mi piaceva la sua arroganza. Questo non si può fare con tematiche europee, ma viene bene con gli argomenti dei paesi coloniali. Qui anche i lettori colonizzati sono orgogliosi del fatto che un europeo parli di loro. Allora gli feci una proposta…
_Che proposta?
_Gli dissi: “Ascolta, hai guadagnato tanti quattrini con questo libro, scritto assemblando il lavoro faticoso d’indagine di autori locali argentini, poveri e sconosciuti, che nella loro vita non hanno mai visto uno spicciolo per le loro fatiche. Perché non dai una parte dei soldi che ottieni dalle vendite alle biblioteche dei piccoli villaggi della Patagonia?”. Mi guardò con sguardo sovrano che tradiva compassione e disprezzo. Non si degnò di rispondermi, e non lo vidi mai più.
_Non hai neanche avuto uno scambio di lettere con lui? Magari per un chiarimento?
_Be’, diciamo che è tornato a scrivere su di me dopo la sua morte. Probabilmente aveva la coda di paglia!, dice con un po’ di malizia.
Adesso il traduttore non capisce. _Che vuoi dire?
_Un giorno, dopo la sua morte, esce un altro libro. Un’antologia postuma intitolata Anatomia dell’irrequietezza. E lì trovo un capitolo contro di me e contro gli anarchici, come Soto, che avevano condotto gli scioperi della parte sindacalista del movimento di rivolta in Patagonia. Uomini che combatterono una lotta disperata a trentamila chilometri dal centro del mondo. Mi scuso con Chatwin: mi sono occupato di peones ubriachi e di profeti anarchici. Avrei dovuto occuparmi di latifondisti di sangue britannico dagli stivali lucidi e di militari dal frustino facile. Tranquillizzatevi, fan dei grandi scrittori di best-seller. Gli scrittori del terzo mondo spesso finiscono male, e le loro ossa si mescolano alle ossa anonime dei refrattari patagonici, visitate solo da cani vagabondi e puma ribelli.
E allora Osvaldo scoppia di nuovo a ridere e versa altri due bicchieri di whisky.

Una chiaccherata con:  David Graeber, ( tra 3 anni il sistema esploderà…..)
 

David Graeber

David Graeber (New York, 1962) è un antropologo anarchico statunitense che insegna alla Goldsmiths University di Londra, ma è anche uno dei più attivi esponenti del movimento Occupy Wall Street. I suoi libri vendono in tutto il mondo decina di migliaia di copie alla settimana e David è diventato uno dei più ascoltati critici della società capitalista.
Un redattore de L’Anarchico è stato presentato a David dalle compagne e dai compagni della casa editrice Eleuthera, che ha pubblicato in Italia due libri di David: Critica della civiltà occidentale e Frammenti di antropologia anarchica. Vi consiglio senz’altro di leggerli.
Mentre mangiamo una pizza da asporto presso il Circolo dei Malfattori (che ringrazio per l’ospitalità) davanti ad una bottiglia di vino che David, a differenza mia, beve con molta moderazione, ci mettiamo a chiacchierare… 
L’Anarchico: Sono sempre stato interessato a indagare gli approcci anarchici all’economia e ho visto che fai parte della comunità Znet di Michael Albert, che si occupa della costruzione di una società alternativa al capitalismo basata sull’economia partecipativa. Come vedi questo tentativo di costruire un’alternativa di sistema al capitalismo?
David Graeber: Conosco Michael da molto tempo ma mi sono impegnato in questo progetto in modo piuttosto saltuario: lo giudico molto interessante anche se in realtà non l’ho mai considerato pienamente rispondente alle mie esigenze. A mio avviso, Michael Albert risente in parte della sua formazione negli anni ’60 e ’70 pertanto ha un approccio diverso dal mio, anche da un punto di vista generazionale. Il modello dell’economia partecipativa è assolutamente meraviglioso, ma la gestione del processo da parte di Michael mantiene a mio avviso un’impostazione un po’ settaria, tipica di quegli anni. La cosa più importante è che il progetto sia riuscito a far visualizzare agli attivisti sociali un’alternativa possibile al mercato, di tipo socialista e democratico, e questo risultato è dovuto in buona parte al lavoro di Michael. Chiaramente, quando si lavora molto per costruire un modello, allora si tende a diventare protettivi nei confronti dei risultati raggiunti e si tende ad arroccarsi sulle proprie posizioni. In realtà nessuno può veramente sapere come le persone si organizzeranno se e quando si presenterà l’occasione. Quindi, è stupendo avere un modello che dimostri che un altro sistema economico è possibile, ma penso sia sciocco pensare che questo modello rappresenti l’unica alternativa praticabile.
In effetti, Michael Albert ha ricevuto molte critiche provenienti da punti di vista anche molto diversi e mi è parso, anche dal punto di vista accademico, molto preparato a rispondere puntualmente per difendere la sua creatura …
E’ quello che sta facendo da parecchio tempo, del resto, e la capacità di discutere è una delle sue principali caratteristiche…
Da un punto di vista anarchico, la remunerazione del lavoro basata esclusivamente sullo sforzo e sul sacrificio è un altro punto molto controverso…
Sicuramente questo è un punto fondamentale. Ma a mio avviso il principale punto di debolezza della ParEcon è il sistema etico sottostante puramente utilitaristico… Ho avuto con Michael un confronto proprio riguardo al sistema etico e morale nel suo modello e gli strascichi di questa discussione mi hanno un po’ raffreddato sul progetto.
Quando ho messo in discussione la base utilitaristica della ParEcon, ovvero che l’unico criterio etico per preferire scelte alternative fosse massimizzare la felicità sociale complessiva misurata tramite l’utilità, allora mi sono accorto che Michael quasi non avesse coscienza della pericolosità di una scelta del genere e che ci potevano essere modi alternativi. Chiaramente, se in una società riuscissimo ad imporre la schiavitù al 10% della popolazione faremmo il restante 90% estremamente felice! (ride).
In effetti, anch’io non sono pienamente convinto dalla proposta ParEcon, soprattutto poiché mi risulta difficile immaginare e dettagliare tutti i meccanismi di funzionamento di un sistema per sua natura estremamente complesso in assenza di un coinvolgimento di massa. Nondimeno, penso che sarebbe molto utile per gli anarchici sfidare la visione di Michael con critiche costruttive e in modo sistematico, al fine di far emergere le problematiche che ci interessano. Infatti, penso che questo movimento che appoggia la ParEcon stia molto faticosamente cercando di costruire ponti fra il movimento anarchico e la cosiddetta “nuova sinistra” soprattutto nei paesi  anglosassoni e che questo obiettivo sia di fondamentale importanza in tutto il mondo. Inoltre, penso che uno dei problemi che i movimenti antagonisti hanno al momento in tutto il mondo è proprio la capacità di immaginare qualcosa di diverso dal capitalismo e da questo punto di vista la ParEcon è un ottimo punto di partenza per una discussione…
Hai perfettamente ragione: una delle strategie degli attori del capitalismo finanziario è stato esattamente quello di distruggere questa capacità di immaginare alternative. Questo obiettivo è stato perseguito in modo talmente convinto che sembra che la necessità di questi attori di costruire un sistema capitalistico funzionale sia passato in secondo piano (ride).
E il capitalismo finanziario nel quale viviamo oggi è un sistema totalmente distorto rispetto al capitalismo competitivo e industriale della teoria economica classica. Chiamano capitalismo un sistema attraverso il quale riescono a giustificare e a perpetuare il dominio di una piccola oligarchia di potenti su tutto il resto. E questa situazione è ben rappresentata dal tuo fortunato slogan, oggi utilizzato da Occupy in tutto il mondo, sul 1% che schiaccia il restante 99% della popolazione.
Precisamente. I potenti paiono mettere tutti gli sforzi nel giustificare i presupposti psicologici e ideologici del capitalismo creando di fatto la più grande mistificazione della storia: convincere la popolazione di quasi tutti i paesi del mondo che il capitalismo è l’unico sistema economico possibile. E dall’altra parte, non si sono preoccupati di creare i presupposti per la sostenibilità nel medio lungo termine di questo sistema. E adesso questo sistema sta cadendo a pezzi e nessuno è in grado di immaginare alternative…
In effetti, penso che anche il tuo libro sul debito sia un contributo molto importante per contribuire a creare un immaginario alternativo al capitalismo attraverso una visone storica del funzionamento di vari sistemi economici funzionanti nel corso della storia. Sarei interessato a capire se nella ricerca di alternative visioni al capitalismo prevedi di partecipare attivamente all’iniziativa del gruppo Znet di Michael Albert per una sorta di nuova Internazionale chiamata IOPS-International Organisation for a Participatory Society (Organizzazione Internazionale per una Società Partecipativa).
In effetti, Michael mi ha coinvolto in questa iniziativa e ho aderito alla IOPS anche se, in realtà, mi sono limitato a mettere una firma senza approfondire. In effetti, il gruppo mi sollecita di prendere un ruolo più attivo in questa costruzione, ma ho visto che da parte di alcuni compagni è stata criticata la vicinanza della nuova organizzazione alla Quinta Internazionale e al Chavismo e, per il momento, non ho assunto un ruolo attivo in questo progetto.

Noam Chomsky in visita a Chavez

Proprio riguardo alla vicinanza del gruppo che ha proposto la IOPS al Venezuela di Chavez i compagni anarchici in Italia, me compreso, hanno espresso enormi perplessità. Mi chiedevo come mai Noam Chomsky si sia invece compromesso con il regime di Chavez, anche partecipando ad una visita effettuata insieme a Michael Albert nel 2009…
Ho l’impressione che Noam Chomsky abbia seguito Albert in virtù dei suoi rapporti di amicizia con Michael. Sul fatto che sia andato a visitare Chavez e il Venezuela non ci vedo nulla di strano poiché a molti nordamericani interessa conoscere meglio il chavismo. Perché a voi no?
Generalmente, gli anarchici italiani detestano Chavez e lo considerano semplicemente un dittatore, in linea con la posizione dei compagni venezuelani espressa chiaramente su periodici come El Libertario.
La mia compagna conosce bene il Venezuela e, in effetti, la situazione sul campo è un po’ più complessa. Il ruolo delle assemblee locali nella gestione politica è molto importante e anche molti compagni anarchici partecipano a queste forme assembleari. E’ legittimo quindi che ci siano posizioni diverse su questo tema e che si continui a studiare questi aspetti. Detto questo, anche a me non piacciono le figure carismatiche alla Chavez, quando hanno il controllo totale della polizia. Va valutato anche il ruolo geopolitico di Chavez per l’autonomia del sudamerica dagli USA che può essere senz’altro visto come positivo. Forse non tanto per i Venezuelani, però (ride).
Cambiando argomento, cosa pensi della situazione europea attuale e quali sono le opportunità per produrre un cambiamento radicale anche alla luce della possibilità di una rottura del sistema monetario basato sull’Euro?
Nessuno sa quello che può succedere quando una crisi internazionale di questo tipo dovesse verificarsi. L’atteggiamento del movimento Occupy a New York nel quale ho partecipato personalmente è stato sempre quello di prepararsi ad affrontare la crisi del capitalismo, considerata inevitabile, costruendo capacità utili da usare quando il momento di crisi si presenterà, intrecciando relazioni che possano aiutare le persone a superare le difficoltà contingenti e a costruire cose radicalmente nuove. La mia previsione è che entro 2-3 anni questa crisi esploderà definitivamente, a meno che i governi non adottino politiche di cancellazione generalizzata dei debiti, cosa che considero politicamente molto difficile. Quindi, penso sia fondamentale per il nostro movimento educare quanta più gente possibile all’autogestione e alla democrazia diretta, come sta avvenendo, per esempio, in Grecia dove le carenze dello Stato vengono affrontate spesso con l’intervento “facilitatore” di compagni che si auto-organizzano. Anche perché l’alternativa è che intervengano i fascisti o la mafia. Questa penso sia la cosa più importante che possiamo fare al momento.
Come vedi la situazione del movimento greco al momento…
Dal punto di vista sociale i compagni si stanno muovendo alla grande: c’è una rete di ristoranti, bar e centri sociali autogestita che funziona molto bene. Da un punto di vista politico, ancora non vedo una crescita sufficiente a supportare un’alternativa concreta di sistema ma i compagni ci stanno lavorando.
Siccome abbiamo parlato dell’importanza di costruire alternative di sistema attraverso l’educazione, la democrazia e l’azione diretta mi interessa capire come valuti la strategia insurrezionalista, che si è manifestata in vari modi per esempio attraverso la rivolta generalizzata durante le manifestazioni e con attacchi di vario tipo in Grecia e in Italia.
Siccome ci sono molti diversi modi per essere insurrezionalisti, ma consideriamo come insurrezionalisti quei compagni che non si preoccupano di pianificare alcunché e lottano per creare una situazione di rottura fondamentale dell’esistente, nella convinzione che una volta realizzata questa rottura l’autorganizzazione consentirà di risolvere tutti i problemi.
Una questione importante è anche quella del movimento di massa. Ci sono dei momenti nella storia nei quali le azioni degli anarchici diventano un fenomeno di massa. In affetti ci sono stati diversi momenti recenti in Grecia in cui apparentemente la rottura sembrava vicina: le masse si sentivano in qualche modo anarchiche: hanno attaccato le banche, i palazzi del potere e hanno partecipato ad assemblee, occupazioni generalizzate, etc. Il problema è che molte di queste persone in realtà erano in qualche modo impreparate e manifestavano tendenze autoritarie, sessiste, a volte anche razziste.
La strategia della rivolta è stata seguita da un movimento di massa fino al punto estremo. Nel febbraio 2012, mezzo centro di Atene è stato dato alle fiamme ma le persone dopo sono tornate a casa e non è successo nulla.
Ho l’impressione che molte delle persone che hanno partecipato alle rivolte, poi si siano rese conto che alla distruzione di un sistema debbano corrispondere proposte concrete e alternative all’esistente. Quindi è sorta l’esigenza anche per gli insurrezionalisti di articolare proposte politiche quali il diritto alla casa, al cibo e al trasporto pubblico gratuito, etc. Molti hanno approfondito gli insegnamenti di Bakunin e Kropotkin e si sono dedicati alla costruzione di reti alternative di supporto sociale nel senso che ricordavo prima. Questo approccio “gradualista” di costruzione di alternative sembra aver conquistato un numero crescente di persone anche in aree precedentemente definite come insurrezionaliste. In conseguenza di ciò, penso che anche questi gruppi si stiano evolvendo in vari modi fino a sviluppare ad una sorta di post-insurrezionalismo.
Ovviamente, esistono anche delle piccole minoranze che arrivano a definirsi nichilisti o comunque che si comportano come tali. Ma sono molto pochi…
La conversazione è poi proseguita con una sorta di intervista collettiva che forse pubblicherò successivamente.
Ringrazio David Graeber per aver così amabilmente conversato con me e tutte le compagne ed i compagni di Eleuthera, in particolare Andrea, per l’aiuto che mi ha dato nel combinare questa chiacchierata.
( da l’anarchico. noblogs. org )
 
La Posta :
Riceviamo da Giampaolo che è stato a dare una mano nelle zone terremotate ” Tornato fresco fresco dalla libera repubblica di Fossoli e Cavezzo,nel cuore dell’Emilia terremotata…o meglio dire nella PANCIA dell’Emilia terremotata , perché il cuore ce lo mettono gli Emiliani stessi con i loro campi autogestiti e le Brigate di Solidarietà Attiva che stanno dando vita ad un gran bel cantiere sociale.Grazie di cuore a tutti i compagni di viaggio!”
La Posta :  Contro tutte le religioni !
Riceviamo da MaryAnn ” Che ne pensi del fatto che molti circoli del PD , Rif Com ,Case del Popolo, ma anche centri sociali, mettano a disposizione locali ad uso culto religioso per immigrati musulmani ? “
Tutto il male possibile, e poi di più. I nostri nonni  prendevano a sassate le processioni che cercavano di uscire di chiesa, ancora negli anni ’20 a Massa Marittima più della metà della popolazione al censimento si dichiarava atea. Come non esistono i poteri buoni non esistono le religioni buone. E non si provi neppure per scherzo a tirar fuori razzismo leghismo populismo e stronzate varie. E’ vero che in Europa la crociata contro l’islam in generale è un cavallo di battaglia delle nuove destre populiste, ma non è che i nemici dei miei nemici sono miei amici, anzi !  Se no vuol dire veramente aver perso la bussola, la stella polare, il minimo sindacale del laicismo… Senza arrivare ai gloriosi anarchici del ’36 di Barcelona che dopo aver fucilato preti fascisti fucilarono, non si sa mai ,anche le statue del cristo re, combattere ogni religione è una questione di civiltà, intelligenza, autodeterminazione e libertà dall’oscurantismo medioevale. Tutte le religioni. Che non è che, nella sostanza, il Dalai Lama sia migliore del Papa, o i buddisti dei musulmani talebani. Dove impazza la religione trionfa il rifiuto della ribellione, della libertà, dell’individuo, della donna. Non è necessario essere grandi studiosi di storia per capire tutti i guasti, i mali, le divisioni, le guerre, le stragi, i roghi, le lapidazioni, i giudizi e preguidizi morali sessuofobici, che le religioni impongono da millenni. La fede religiosa è la notte della ragione. Non è solo l’oppio dei popoli ( anche il contrario) ma un collante vischioso, autoconsolatorio, per non guardare in faccia la realtà, per delegare comunque la nostra unica vita, per lasciare un mondo di merda ai nostri figli. Tutte le religioni, tutte le chiese, tutte le sette, anche quelle cattocomuniste, staliniste, maoiste e persino anarchico mistiche ancorchè informali.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La religione è l’equivalente spirituale del fascismo. ( S.E.)
 
Visti per voi:
Non tutti i concerti costano 42 euro come il prode Capossela a S. Galgano….abbiamo molto apprezzato invece le feste popolari e i concerti gratuiti de I Matti delle Giuncaie a Radicondoli, Tito blues band a Massa Marittima, Terry Allen e Willie Nile al Monterotondo Marittimo rock festival, con tanto, in quest’ultimo luogo, di bis finale ” Satisfacion” con il sindaco vocalist…..
http://youtu.be/2JCyogsuC8c   i Matti alla Leccia il 1 maggio
http://youtu.be/uRWlHD0eNac e qui a Paris !
e qui Tito !  http://youtu.be/N7oDlnlVyZw
http://youtu.be/hD9UUEJDYso qui Willie Nile con il boss !
 
 
 
 
 
 
 
Monterotondo, Willie Nile duetta con il sindaco…
Tito blues band …..

e ricordiamoci che dal 19 luglio alla pinetina di Rio Torto (LI) c’è la sedicesima festa internazionalista con, tra gli altri i RED SKA …ecco il link del centro      http://csiam.over-blog.com/

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Alle volte ritornano : è di nuovo in edicola Lotta Continua, nell’ultimo numero uno speciale sugli Arditi del popolo e le barricate di Parma nel ’22 e  un lungo articolo sui compagni baschi    www.conflittimetropolitani.it
 
qui notizie dalla Corsica  www.corsicalibera.org

 
 
 
 
 
 
Link utili     www.stefanopacini.org
www.radiomaremmarossa.it
www.carmillaonline.com        www.ltmd.it         www.infoaut.org
http://collettivoanarchico.noblogs.org         www.senzasoste.it
www.finimondo.org
Maremma Libertaria Esce quando può e se e come gli pare. Non costa niente, non consuma carta e non inquina, se non le vostre menti. Vive nei nostri pensieri,perchè le idee e le rivoluzioni non si fanno arrestare, si diffonde nell’aere se lo inoltrate a raggera. Cerca di cestinare le cartoline stucchevoli di una terra di butteri e spiagge da bandiere blu,che la Terra è nostra e la dobbiamo difendere! Cerca di rompere la cappa d’ipocrisia e dare voce a chi non l’ha, rinfrescando anche la memoria storica, che senza non si va da nessuna parte. Più o meno questo è il Numero 8  del 12 luglio 2012. Maremma Libertaria può essere accresciuta in corso d’opera ed inoltro da tutti noi, a piacimento, fermo restando l’antagonismo , l’antifascismo e la non censura dei suoi contenuti.
In Redazione, tra i cinghiali nei boschi dell’alta maremma, Erasmo da Mucini, Ulisse dalle Rocche, il Fantasma della miniera, le Stelle Rosse stanno a guardare, Alberto da Scarlino, Alessandro da Grosseto, Antonello dalla Tuscia, Luciana da Pomonte,Complici vari , Ribelli di passaggio,maremmani emigrati a Barcelona.
No copyright, No dinero, ma nel caso idee, scritti, foto, solidarietà e un bicchiere di rosso.
Nostra patria il mondo intero, nostra legge la Libertà, ed un pensiero Ribelle in cuor ci sta (Pietro Gori) http://youtu.be/_KVRd4iny8E
Potranno tagliare tutti i fiori, ma non riusciranno a fermare la Primavera (Pablo Neruda) http://youtu.be/wEy-PDPHhEI (Victor Jara canta Neruda)

Sempre, comunque e dovunque : Libertà per tutti i compagni arrestati !– Fori i compagni dalle galere !-Libertad para todos los presos ! – liberdade para companheiros presos! -comrades preso askatasuna!- liberté pour les camarades emprisonnés!-freedom for imprisoned comrades !- Freiheit für inhaftierte Genossen!- ελευθερία για φυλακισμένους συντρόφους ! – الحرية لرفاق السج