Daniele Boccardi il poeta doloroso che si è negato il grande salto

Daniele Boccardi il poeta doloroso che si è negato il grande salto   di Filippo Bologna
Repubblica — 22 agosto 2010       sezione:  FIRENZE
Dici  Massa Marittima e già qualcosa non torna. Perché a Massa Marittima, il mare non c’ è. Terrestre e marina, piantata in terra ma affacciata sul mare, Massa è una piccola Siena che ha imparato a nuotare ma non ha avuto il coraggio di tuffarsi. Né di ritrarsi, come quei tuffatori saliti troppo in alto che poi si bloccano per la paura e rimangono lì, come statuette di presepe. Nascere in una città che non se l’ è sentita di affrontare il mare aperto ma non ha smesso di sognarlo, sono cose che influiscono sui caratteri, soprattutto su quelli dei poeti e dei filosofi. I filosofi sono quelli che vorrebbero buttarsi ma hanno paura delle onde, e allora rimangono tutti vestiti sulla spiaggia, a guardare l’ orizzonte mentre gli altri fanno il bagno. I poeti invece sono quelli che vanno sott’ acqua, che trattengono il fiato, e il pensiero, più a lungo di tutti, per pescare le perlee poi regalarlea noi. Daniele Boccardi era un poeta, era un filosofo,  di Massa Marittima anche se nato e legato a Grosseto. Era perché non è. Non più. Un giorno ha deciso che ne aveva abbastanza. A volte per i poeti e i filosofi è più facile morire perché è più difficile vivere. Il guaio è che della propria morte possono parlare solo gli altri, la morte rende impossibile ogni obiettività, si è santi o dannati, non c’ è scampo. sta bene, c’ è tutto. E non c’ è niente. Te ne accorgi poco a poco. Quando al mattino sfogli il giornalee trovi scritto che tutto va bene, quando la sera tiri giù la saracinesca della bottega e d’ un tratto senti una fitta alla schiena e ti chiedi quante volte hai fatto quel gesto, quando ti specchi nelle vetrine del corso e vedi un signore che ti guarda, quando ti stringi nel cappotto mentre attraversi il corso deserto spazzato dal vento. Quando la gravità della vita ti ha risucchiato per sempre nel suo lentissimo gorgo e ti sorprendi a maledire i sogni, e gli anni, invecchiati ai tavolini dei bar, morti di freddo sul sagrato del duomo. Troppo tardi, te ne accorgi troppo tardi. Troppo presto, Daniele Boccardi se n’ è accorto troppo presto. Ma che farà quel figliolo tutti i giorni chiuso in camera sua a pestare sui tasti della macchina da scrivere? Si allena Daniele: la scrittura è l’ atletica dell’ anima, è l’ asta del pensiero per scavalcare il fosso e lanciarsi di là dal muro. Daniele l’ ha capito, e si allena tutti i giorni per il grande salto. Poi arriva la paura di non farcela, la rassegnazione, il ritiro. Quelle mura che ci hanno lasciato i nostri avi e cingono le nostre rassicuranti cittadine toscane, oramai, non servono più. I nemici più insidiosi non sono alle porte, ma in cantina. E c’ è aria di cantina negli scritti di Daniele, lui è il primo a respirarla: “Tutto ciò che scrivo ha odore di chiuso, di aria viziata”, appunta tra le carte. Bisognava aprire, far prendere aria, ma le finestre erano pesanti, nemmeno fossero inchiodate. Un ragazzo tranquillo Daniele, studi liceali, poi l’ unipoi viventi o non viventi ( morenti mai), giusto per non dire vivi o morti, sembra la voce di uno stato di famiglia richiesto dall’ anagrafe letterariao una placca dorata da affiggere sul portone per scacciarei fantasmi. Forse perché dei morti abbiamo sempre paura, che tornino a trovarci e ci dicano quel che pensano davvero, di noi. Daniele Boccardi era cresciuto in provincia. Altro che la provincia “aperta ai venti e ai forestieri” vagheggiata da quel anarco-sentimentale di Bianciardi. Tutt’ altra provincia, turrita e fortificata, chiusa in sé, trincerata nei riti e nelle abitudini: il bar, la chiesa col campanile, le botteghe, lo struscio serale, sembra quasi un plastico, un mondo in miniatura. Perché andarsene, ti sussurra, qui si versità, filosofiaa Pisa. Da una provincia all’ altra, Pisa non sarà Parigi, d’ accordo, ma dalla Maremma amara ai lungarni dorati è già qualcosa. Poi saltano fuori problemi con la tesi, una divergenza col relatore che s’ impunta sul titolo: Per una filosofia della scienza sperimentale, c’ è quel per che non va bene. O così, o niente. Allora niente. Daniele non cede, la tesi resta nel cassetto. Alla fine minaccia di cambiare ateneo, la controversia si sblocca, e la tesi ottiene finalmente il placet del barone. Segue laurea, e omerico ritorno a Massa, è tempo di cercar lavoro. Ma il lavoro nel frattempo si è estinto, non esiste più, si trovano lavoretti interinali, necroforo per qualche mese, pulizie nei bagni pubblici, ripetizioni di italiano agli stranieri nei campeggi, cose così. Daniele si adegua, come ci insegnano i genitori il lavoro non è mai umiliante, umiliante semmai è non averlo. Bussare alle porte che non si aprono, le giornate passano e nemmeno te ne accorgi. Daniele si chiude sempre più, l’ ultima estate nessuna vacanza, nessuna mèta da raggiungere. Rimane al guado, nella palude del tempo che non passa, quella dove non si affonda né si sta a galla, quella che nessuna bonifica del Granduca Leopoldo potrà mai prosciugare. Poi decide di attraversarla da solo, la palude. E raggiungere l’ altra sponda. Lascia dietro di sé una scia di fogli. Sono tanti e sparsi. Quello che si inceppa sulla lingua in pubblico, esce dal rullo della macchina da scrivere in privato. A volte va così. La scrittura diventa un avvocato e un confessore cui affidare le nostre volontà, i nostri segreti: saprà custodirli senza tradirci? Vite minime, scritti diseducativi, si intitola così la miscellanea di scritti uscita postuma, nel 2003, per i tipi di Stampa Alternativa. Si tratta per lo più di racconti brevi, ma anche aforismi, poesie, frammenti, alcune fiabe. I materiali sono eterogenei e non datati (forse non era possibile farlo), difficile discernere, a volte si intuisce una maturità diversa da scritto a scritto. La curatela del libro manca un po’ di lucidità: due prefazioni, una postfazione, come se ognuno avesse sentito il bisogno di aggiungere qualcosa, di raccontare il suo Daniele. Ma la ferita è ancora aperta, è più che comprensibile, quelle sono ferite che non si chiudono. Alla fine quel che conta è il libro, e non quello che sta intorno. Vite minimeè un libro doloroso, improvviso, sorprendente. Come lo è la scrittura di Daniele Boccardi, che riesce a uscire dalle situazioni difficili con l’ intelligenza combinatoria di uno scacchista. Dio si divertea giocare con gli uomini sulla grande scacchiera della vita. Ma, a volte, ecco l’ illuminazione, l’ intuizione vincente, una sola mossa, e una posizione disperata si rovescia in scacco matto. Bianco e nero, Boccardi riesce a capovolgere il sadico gioco dell’ esistenza mostrandone il negativo, basta girare la scacchierae mettersi nei panni dell’ avversario. ” 50 Kili Tanto poco/mi desidera/ il centro della terra”, eccola qua la combinazione inaspettata, tre righe e la gravità si tramuta all’ improvviso in desiderio di essere amati. Che poi in fondo è il grande motore della scrittura di Daniele, di tutti: disperata, irritante, commovente, bastarda ricerca di amore. Che si può cercare ovunque: tra i seni caldi di un’ appassita professoressa di provincia, nelle timidezza di un venditore porta a porta, nel faccia a faccia tra una “nave-scuola” e le madri preoccupate dei suoi “allievi”, persino andandoa rimestare nella merda si possono trovare tracce di amore, come nel racconto La ricerca, dove l’ escatologia si azzoppa di una lettera e si fa scatologia. Cercare l’ amore è la nostra missione, trovarlo la nostra speranza. Crescere in una piccola comunità con la certezza di essere uguali e la consapevolezza di essere diversi, magari più sensibili, superare la vergogna della propria intelligenza, coltivare la tiepida illusione di essere riconosciuti, persino rispettati. Carezzati mai, la provincia è una madre ingrata che preferirebbe abortire piuttosto che essere tenera con uno dei suoi figli. Questo è vivere una vita minima. Ma una vita minima non è per forza una vita agra. Pare forzato l’ accostamento in quarta di copertina con Bianciardi, conterranei non vuol dire fratelli, come forzato sarebbe il parallelo con Michelstaedter, morire giovani e filosofi non basta per esser compagni. Daniele Boccardi non ha compagni,
si allenava in solitaria, per migliorarsi, per spostare sempre più in alto l’ asticella del dubbio, per farsi trovare pronto al momento del grande salto. Quello che ancora, non ci è dato fare.
FILIPPO BOLOGNA